Fonte: Corriere della Sera
di Gian Antonio Stella
Il nodo è che un po’ tutti i partiti, di destra e di sinistra, si regolano in base alla propria convenienza. Ma i parlamentari devono restare liberi
Buttato giù il «loro» governo tra fulmini e saette, Matteo Salvini e Luigi Di Maio son tornati a battere lo stesso tasto. Il primo: «Questa Donatella Conzatti, già passata con Renzi, era stata eletta coi voti del centrodestra e della Lega e ora si sveglia renziana. A me queste persone mi fanno schifo. Bisogna intervenire sul vincolo di mandato quando avremo i numeri. Non voglio le gabbie, ma quando passi da un lato all’altro…». Il secondo: «Dobbiamo metter fine al mercato delle vacche sia dei parlamentari che passano nei gruppi sia dei gruppi che li fanno entrare. Credo sia giunto il momento di introdurre in Italia il vincolo di mandato. Come e con quale formula costituzionale vedremo, ma è arrivato il momento di dire che, se vieni eletto con una forza politica e poi passi in un’altra forza politica, te ne vai a casa». Rileggiamo: «in Italia». Precisazione opportuna: come ricorda Openpolis «il mandato imperativo opposto al libero mandato è previsto solo in Portogallo, Panama, Bangladesh e India». Non tutti, diciamo, Paesi di punta delle democrazie avanzate… E la scelta dei padri costituenti di evitare questo legaccio tutto fu meno che un capriccio di amanti dell’instabilità.
Quale fu, poi, il mandato da rispettare consegnato ai propri eletti dai rispettivi elettori alle ultime politiche del 4 marzo del 2018? Quello ai candidati grillini fu riassunto dal fondatore Beppe Grillo, sei mesi prima del voto, con queste parole: «Salvini e la Lega sono il trionfo dell’incoerenza e dell’inaffidabilità». Peggio, continuò il padre padrone del M5S: «Davano del mafioso e del piduista a Berlusconi e ora sono fedeli alleati nelle regioni e nei comuni. Volevano bruciare il tricolore e sono alleati della nazionalista Meloni… La conclusione è che Salvini fa più schifo di Renzi e Berlusconi messi insieme». Quanto al mandato al leader del Carroccio, i leghisti votarono Matteo Salvini convinti da queste sue parole scolpite nel marmo: «Una maggioranza ci sarà: la nostra», cioè di quel centrodestra poi accantonato e per il quale oggi torna a chiedere voti. Ma se questi voti fossero mancati? «Escludo ogni accordo con il M5S», rispose. Mai: «Il M5S è il movimento cinque bufale!». A farla corta: col «contratto di governo» ciascuno violò allora il mandato ricevuto dai propri elettori. Lo imponeva lo stallo politico? Può darsi… Ma se ci fosse stato il vincolo oggi invocato, l’esecutivo giallo-verde non sarebbe mai nato. A meno che, si capisce, questo magico vincolo fideistico non fosse legato al partito. O direttamente al suo segretario. Scusate: Capitano. Scusate: Capo politico. Con aperture verso il Dux…
Detto questo, le scelte legate a questioni di principio come quando Giorgio La Pira che fu folgorato all’ultimo istante dal dubbio sull’assenza della parola Dio nella Carta costituzionale, presente nello Statuto Albertino e perfino nella Costituzione della Repubblica romana del 1849, non ci sono più. O sono sempre più rare. Ed è vero che da anni il Parlamento pare assomigliare, nei momenti più gravi, purtroppo, al mercato delle vacche. Dicono i numeri Openpolis che nella XVI legislatura, la terzultima, i parlamentari che cambiarono casacca furono 180 per 261 traslochi totali (fatto uno, capita di farne un altro o più), nella XVII cioè la penultima ben 348 per 569 transumanze complessive: il doppio. Quasi 10 al mese. L’ultima era partita meglio: «Fino ad agosto i cambi di gruppo per scelta politica erano stati solo 7, da quando il presidente della repubblica ha affidato il secondo incarico a Giuseppe Conte il numero è raddoppiato». Per salire poi a 28. E crescere ancora, con la nascita del gruppo renziano, fino a 79 cambi. Tanto che la media dei traslochi è schizzata a 4,39 al mese. Poco meno di quella fra il 2008 e il 2013.
Il nodo è che un po’ tutti i partiti, di destra e di sinistra, di ieri e di oggi, si sono regolati sul tema in base alla propria convenienza in quel dato momento. E se Salvini è furente per l’abbandono in favore della neonata Italia Viva della senatrice Conzatti, peraltro eletta nelle file berlusconiane e dunque possibile alleata domani ma ostile all’ex governo per metà salviniano, Di Maio è non meno furibondo per l’addio di Silvia Vono, forse costretta (forse) a versare una penale al Movimento di centomila euro e già piddina e dipietrista prima di farsi grillina. Un «tradimento» a testa. Il tutto mentre Matteo Renzi, benedetto dalle new entry, gongola. La Vono votò tutte ma proprio tutte le leggi «salviniane»? A caval donato non si guarda in bocca. Al Senato, poi…
Capiamoci: Winston Churchill fu eletto coi Tories, passò ai liberali e tornò coi Tories. Gabriele D’Annunzio arrivò in Parlamento con la destra e poi si spostò l’estrema sinistra. E come ridacchiava Francesco Cossiga, «anche Lutero prima era cattolico e San Paolo perseguitava i cristiani». Insomma, cambiare idea è legittimo. Spesso giusto. Talvolta doveroso. Ma c’è modo e modo di farlo. «Spero che non ci siano governi alla Scilipoti coi voltagabbana», tuonò il leader leghista quel giorno d’agosto in cui butto giù l’esecutivo giallo-verde. E ha continuato a insistere: Scilipoti, Scilipoti, Scilipoti. Sarebbe stato più prudente, ricordare che Umberto Bossi, quando era il (venerato) capo anche suo, prese nel 2010 una posizione assai diversa. Non solo accettò il salvataggio del governo berlusconian-leghista da parte di Antonio Razzi & company, ma disse: «Meglio Scilipoti che quella scienziata, la Rita Levi Montalcini».
Morale: come sottolineò vent’anni fa il nostro Claudio Magris, «liberi tutti di modificare opinione, ma dipende dalla qualità della conversione: la Maddalena non disse mai parole contro le sue ex colleghe né pretese di presiedere un’associazione di vergini»…