22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Pierluigi Battista

«Pietà l’è morta», si dice in guerra. In guerra, appunto: quando si sviluppa un’atroce familiarità con la morte.

Si dice quando la morte falcia innumerevoli vite, quando l’uccisione del nemico è un ordine categorico e non, come in tempo di pace, un reato. Ma con Totò Riina non si può parlare di pace. Lui e i suoi sgherri hanno compiuto mattanze senza pietà, hanno scatenato una guerra spietata contro incolpevoli esseri umani. Ora che Riina è morto, ci vorrebbe il silenzio delle emozioni, ma nell’epoca ciarliera dei social il silenzio è un’anticaglia del passato, e infatti da quando si è sparsa la notizia del boss deceduto è esplosa la voglia di dire, odiare, farsi trascinare dalla collera, e talvolta vilipendere, virtualmente, il cadavere ancora caldo dell’aguzzino. Qualcuno ha addirittura esultato. E la pietà? Fino a dove può spingersi la pietà per il corpo senza vita di un massacratore seriale, per uno che ha esercitato una tirannia sanguinaria, rivendicando come un titolo d’onore la propria crudeltà?
Attraversa il web, in tempo reale, il dilemma etico che da sempre accompagna l’atteggiamento umano nei confronti della morte di chi si è trasformato in vita in un agente del Male. La Chiesa, che pure dovrebbe essere il quartier generale della misericordia, non sempre è stata clemente con le morti considerate «pericolose», fino a rifiutare cristiana sepoltura ai suicidi, i cui corpi non meritavano il seppellimento in terra consacrata. Oggi si discute sull’opportunità di un funerale religioso per Riina, però le preoccupazioni sembrano piuttosto alimentate da considerazioni di ordine pubblico. Ma se è risuonata nei decenni scorsi l’angosciosa interrogazione «dove era Dio quando le camere a gas erano in funzione», anche oggi, a poche ore dalla morte del boia, ci si chiede dov’era Dio quando un bambino veniva sciolto nell’acido o altri bambini sono rimasti orfani dopo la carneficina di Capaci. Pietà per Riina? Nel segreto dei cuori e delle coscienze, forse, ma non nella dimensione pubblica del cordoglio. E del resto anche i «laici», i non credenti, non possono sfoggiare sempre sentimenti sublimi: le loro coscienze sono forse state travolte dai tormenti della pietas quando, dall’alto dei cieli non sporcati dal fango del terreno, venivano sganciate bombe poco intelligenti sui bambini destinati alla morte?
Nell’epoca del web loquace, del resto, la morte di un personaggio pubblico è diventata l’occasione di un rito collettivo in cui ciascuno, per il semplice fatto di possedere l’arma di un necrologio in 280 caratteri, aspira ad essere l’officiante. Un rito di commozione e di partecipazione per la morte di un cantante, di un artista, di uno scrittore su cui riversare torrenti di affetto. Un rito non proprio misericordioso quando a morire è un simbolo del Male. Riina si è meritato un trattamento così furente oppure si sta facendo, a parole ma non in misura meno macabra, uno scempio collettivo del suo cadavere? Nel segreto del cuore di ciascuno, le risposte possono essere le più varie. Ma nella dimensione pubblica il disprezzo per un assassino spietato può essere più che giustificato. I familiari di Riina hanno tutto il diritto di piangere il loro morto, ma certo non, come ha fatto sempre via web la figlia del boss, intimare il silenzio pubblico con un gesto perentorio che appare come qualcosa di spregevole se si considera che proprio l’intimazione violenta e sanguinaria al silenzio è uno dei pilastri simbolici e non solo simbolici del terrore mafioso. Il disprezzo non si estingue con la morte. E l’invocazione alla pietas rischia di suonare ipocrita e declamatoria.
«Pietà l’è morta» è terribile. Ma per Totò Riina la pietà non è mai stata viva, non è mai esistita.

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