22 Novembre 2024

Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto

C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di «passato che non passa». Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’«audience». All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione.
Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» recita: «In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».
In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i «capi responsabili del regime fascista» (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica.
Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti «capi responsabili» del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo — essi piuttosto si auguravano — ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia — quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile — hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare.
Negli anni di quell’infuocato dopoguerra si decisero molte cose della nostra Storia, della sua ambiguità, delle sue molte apparenti contraddizioni e dei suoi molti taciti compromessi: tutte cose che possono dispiacere, e che però aiutarono non poco la Repubblica a mettere radici e a vivere. Il Partito comunista, ad esempio, ebbe una parte decisiva nella scrittura della Costituzione, e se non altro in questo senso svolse sicuramente un ruolo centrale nella costruzione della nostra democrazia. Eppure quel medesimo Pci — impregnato di stalinismo fino alla punta dei capelli e con il suo massimo dirigente coinvolto direttamente nei più atroci misfatti di Mosca — non poteva certo dirsi una forza politica democratica. Ciò nonostante, se nel 1976 qualcuno avesse chiesto a Pietro Ingrao sul punto di diventare presidente della Camera — all’Ingrao ex direttore della trucissima Unità filosovietica al tempo dei «fatti» d’Ungheria — di dichiararsi preliminarmente contro il comunismo e i suoi crimini, di dissociarsi pubblicamente dal Gulag e dal massacro di Katyn, che cosa avremmo pensato? Saremmo stati d’accordo?
La nostra storia, al pari di quella di tanti altri Paesi, ma forse un tantino di più, è stata fatta anche di questi necessari oblii, di queste opportune dimenticanze. Dopo il 1861 chi chiese mai ai tanti democratici che pur avendo militato durante il Risorgimento nelle schiere mazziniane si erano poi messi al servizio dei Savoia, chi chiese mai di rinnegare il loro passato, di dissociarsi retrospettivamente dalla loro fede e dal suo profeta braccato fino alla fine dalla polizia dei suddetti Savoia? (In molti lo fecero, come si capisce, ma perlopiù elegantemente, in privato). E a Giosuè Carducci, per dirne un’altra, appassionato aedo dell’Italia monarchica di fine Ottocento, chi rinfacciò mai di aver detto peste e corna, qualche decennio prima, del modo in cui quella stessa Italia era stata fatta? Cioè con l’ambiguità e con gli equivoci, con la mutevolezza dei fronti e l’eterogenesi dei fini con cui sono state sempre fatte le cose su questa terra?
Bisogna convincersene: la storia e la politica che ne è l’anima non sono cose che assomiglino al casellario giudiziario, con l’elenco dei pregiudicati da tirar fuori al momento opportuno. I conti con l’avversario, con il nemico, vanno regolati sia pure nel modo più spietato ma sul momento. Non ottant’anni dopo aver vinto.

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