16 Settembre 2024

Economia e merito: i settori dove è stata favorita la competizione sono quelli che hanno reagito meglio alle crisi

La legislazione comunitaria è stata fermata per ora sul «bagnasciuga». Il termine porta male. L’emendamento al decreto Milleproroghe — che ha sollevato le obiezioni del Quirinale — crea sulle concessioni balneari una situazione paradossale. I Comuni possono procedere con i bandi, così come previsto dalla legge sulla concorrenza che, ricordiamo, è indispensabile per avere tutti i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ma il rinvio della mappatura e l’estensione degli attuali contratti al 31 dicembre 2024 pongono rilevanti interrogativi sulla compatibilità con il diritto europeo.
Il rischio di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles indebolisce il nostro potere negoziale su fronti assai più complessi: dal nuovo patto di stabilità alla spinosa questione degli aiuti pubblici all’industria. La giurisprudenza, con le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, è chiara.
Il «bagnasciuga» è un argine illusorio, ma politicamente utile. Risponde alle attese di una parte dell’elettorato, di una delle tante lobby, corporazioni del nostro Paese. Piccola però, ve ne sono tante altre. Più potenti e meno visibili. Le imprese che gestiscono, su spiagge demaniali, gli stabilimenti vanno salvaguardate — e la normativa dà garanzie adeguate — nella tutela degli investimenti e nel riconoscimento di avviamenti decennali. Ma non è giusto — anzi diciamo è un vero scandalo — che tutti insieme paghino, nonostante gli aumenti previsti dei canoni, poco più di 100 milioni l’anno, 6 mila euro a chilometro quadrato. La sola galleria Vittorio Emanuele rende in affitti, al Comune di Milano, 65 milioni l’anno.
Se i proprietari delle spiagge fossero dei privati, magari con la parcellizzazione tipica dei terreni agricoli, avremmo l’insurrezione di chi si sente impoverito dalla scarsa valorizzazione dei propri diritti. Lo Stato siamo tutti noi. Ma pensate soltanto, per un istante, se tutto il resto dell’economia fosse regolato dallo stesso principio — lunghe concessioni, trasmesse di padre in figlio — ci ritroveremmo ancora immersi in una sorta di Medioevo. Ha qualche ragione però chi teme che mettendo a bando le concessioni possano vincere società multinazionali che nulla hanno a che vedere con le comunità locali. Sì, ma si può obiettare che favorire le aggregazioni territoriali o nazionali e creare società in grado di esportare un modello gestionale di successo, aprirebbe al made in Italy altri e forse persino più redditizi mercati. Se invece ci si limita a una semplice protezione corporativa — come è avvenuto per il settore alberghiero dove vi sono quasi solo giganti esteri — si prolunga solo il declino degli operatori minori senza aiutarli a crescere. Chi ha saputo per tempo organizzarsi, per esempio nel commercio al dettaglio, è diventato socio di catene più grandi, innovative e redditizie (anche nazionali), con non trascurabili vantaggi per i clienti e i consumatori.
Una delle obiezioni più frequenti è la seguente: con tutti i problemi che abbiamo, il nostro destino europeo è legato indissolubilmente alle spiagge? Annotazione corretta. Un osservatore distratto potrebbe essere indotto a credere che un intero Paese sia frenato da due sole riottose corporazioni, i balneari e i tassisti. Non è così. Si difendono, com’è naturale. Ma la concorrenza piace poco anche ad altri. Più potenti. A parole più moderni e aperti. E nel vissuto quotidiano l’apertura dei mercati è spesso vista come un pericolo. Non come un’opportunità. Soprattutto per i più giovani. Se ne vanno già in tanti. E dove vanno? In Paesi nei quali vi sono maggiore concorrenza e riconoscimento del merito.
Nel decreto Milleproroghe, tanto per fare un altro piccolo e significativo esempio, è stato approvato un emendamento di Fratelli d’Italia che estende la possibilità di concorsi riservati per docenti di prima e seconda fascia fino a 14 anni dall’approvazione della legge 240 del 2010. In altri termini, gli atenei potranno fare concorsi dedicati solo ai propri ricercatori interni, senza la noia di allargarsi a tutti, difendendo così il loro arenile professionale.
Eppure, il Paese dimostra di stare in piedi grazie soprattutto alla dinamicità innovativa di chi esporta e affronta ogni giorno una concorrenza internazionale spietata. Nel 2022 le aziende italiane hanno esportato per oltre 600 miliardi di euro, quasi un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Se questi settori dell’economia avessero vissuto di concessioni benevole a lunga scadenza, nella certezza di non avere rivali, sicuri del loro spicchio di produzione e vendita, oggi probabilmente non esisterebbero più. Scomparsi. La lezione vale per tutte le attività economiche. Ognuno ha avuto o ha la propria spiaggia. Basta rileggere il saggio di Andrea Colli e Franco Amatori (Impresa e industria in Italia, dall’Unità a oggi, Marsilio) per comprendere quanto sia stata avversata la concorrenza. A partire dalla stessa Confindustria contraria ai primi accordi europei. Quale sarebbe stato il futuro dell’industria energetica italiana — e dello stesso nostro modello di sviluppo — se non avesse prevalso la lobby petrolifera su quella nucleare, nella quale avevamo primati di eccellenza? E quale sarebbe stato il destino dell’industria automobilistica se non ci fossimo protetti troppo dalla concorrenza giapponese, salvo poi subire, impreparati, quella tedesca? Gli esempi sono numerosi. La concorrenza in Italia, non è temuta solo sulle spiagge. Quello è solo un granello, in un rosario di paure ancestrali che i successi del made in Italy hanno dimostrato essere del tutto ingiustificate.

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