L’astensionismo selettivo delle periferie alle ultime Amministrative e l’umiliazione dei 5 Stelle fotografa il processo in atto
Il partito che aveva vinto le elezioni politiche del 2018 ha registrato nella recente tornata elettorale una sonora sconfitta. È parso totalmente fuori dai giochi, ha ammainato la bandiera delle sindache delle grandi città (Appendino e Raggi) e soprattutto, nonostante di anni ne siano passati, è sembrato ancora a digiuno di cultura dell’amministrazione urbana. Con ciò non intendo sottovalutare le trasformazioni che in questi tempi hanno modificato la struttura dei Cinque Stelle e che, se vogliamo, possono essere sintetizzate sia con il mutamento del profilo politico di Luigi Di Maio sia con l’isolamento delle posizioni di Alessandro Di Battista. Anzi. Se la pandemia ci avesse colpito prima di queste discontinuità il vero partito dei no vax sarebbe stato con tutta probabilità il movimento fondato da Beppe Grillo, con le conseguenze nel contrasto all’epidemia che si possono immaginare.
Della crisi dei 5 Stelle è prevalsa finora però una lettura politicista riferita agli errori di gestione della sua forza politica in Parlamento e più in generale nella conduzione degli affari di Palazzo. È rimasto in ombra il «sottostante» sociale ovvero come via via le parole d’ordine del movimento non abbiano incontrato più il favore dei suoi elettori e più in generale dei seguaci del Vaffa. Conquistando nel 2018 un terzo dei voti espressi nelle urne i 5 Stelle avevano coronato una battaglia di contrapposizione e insieme concorrenza alla sinistra storica che li aveva portati a diventare il partito della lotta alla disuguaglianza.
Nel Novecento le disparità sociali, interpretate prevalentemente sull’asse capitale-lavoro, erano state la materia prima dei successi delle sinistre di varia ispirazione. I partiti nati dalla falce e dal martello, al potere o dall’opposizione, avevano operato una perfetta «lavorazione» di quella materia sovente in abbinata con i sindacati. Da qui un insediamento sociale straordinario tra gli operai, gli impiegati a bassa qualifica, i disoccupati e in qualche regione anche tra gli artigiani a più basso reddito. Via via con il dispiegarsi di nuove contraddizioni sociali che rendevano meno paradigmatico il conflitto di fabbrica e segnalavano l’arrivo di altre figure sociali come i precari, le partite Iva e i working poors, la rendita politica del secolo scorso è andata consumandosi. Ne sono stati una riprova un primo sfondamento di Forza Italia tra gli operai e il successo di una forza interclassista di tipo nuovo come la Lega Nord, che spostava il conflitto sui temi fiscali e territoriali.
Ma è con l’avanzata dei 5 Stelle che l’Opa sulla disuguaglianza riesce a pieno, che i partiti eredi della sinistra novecentesca vengono scalzati di brutto e che prende corpo anche una nuova elaborazione delle disparità sociali. Si fa largo un’idea della giustizia sociale che non si appaga di risultati intermedi ma che ha come primo obiettivo la «vendetta» nei confronti del capro espiatorio. Si manifesta una sfiducia totale nella intermediazione sociale come strumento di equità e all’azione dal basso dei sindacati si preferisce l’intervento top down dello Stato. Si contesta tutto l’armamentario riformista della mobilità sociale, della formazione, delle politiche per il lavoro e lo si sostituisce con unico provvedimento — il Reddito di cittadinanza — che finanzia i meno abbienti in chiave di Grande Redistribuzione. In quest’operazione i grillini non solo riscrivono l’abecedario della lotta alla disuguaglianza ma evidenziano anche una ricorrente amnesia nel pensiero della sinistra dell’altro secolo, che aveva esaltato gli scioperi dei lavoratori manuali ma messo clamorosamente in secondo piano la lotta contro la povertà. Grazie al combinato disposto delle idee di cui sopra i 5 Stelle sono arrivati ad avere nel 2017/18 persino il consenso del 40% dei lavoratori autonomi, più della somma di Forza Italia e Lega di allora. La spiegazione è che al centro della società italiana si era creato un magma di risentimento sociale e di rancore che faceva sì che mondi prima differenti tra loro — gli operai, i commercianti, gli artigiani, gli insegnanti — finissero per somigliarsi, i comuni sentimenti di frustrazione che li animavano avevano la meglio sulle differenze. Tutti avevano perso l’orgoglio del proprio lavoro — manuale o intellettuale che fosse — e questa sottrazione li rendeva più uguali tra loro, portati ad autodefinirsi solo in base alla contrapposizione frontale con le élite cosmopolite.
Di tutta questa costruzione teorica e poi politica oggi è rimasto poco. E i difetti evidenziati dal Reddito di cittadinanza sono tutto sommato il meno. Sarebbe interessante capire meglio quali sono i legami tra i 5 Stelle e quel 16-17% di elettorato che, almeno secondo i sondaggi, li voterebbe ancora oggi ma è evidente che il gruppo dirigente rischia di dissipare i guadagni dell’Opa e fatica a formulare, come si evince dai tentativi di Giuseppe Conte, una nuova piattaforma programmatica e la scelta di nuove priorità di insediamento. La disuguaglianza ha perso il suo partito di riferimento e in fondo l’astensionismo selettivo delle periferie che si è registrato alle ultime Amministrative fotografa questo processo, lo rende visibile tutto d’un botto.
Ma umiliando i 5 Stelle e astenendosi dal votare i disuguali hanno operato una scelta di ulteriore radicalizzazione, hanno volontariamente gettato alle ortiche l’ennesima chance di introdurre le proprie ragioni nel circuito della politica? O, come sostengono altri, si sono presi solo un turno di riposo? Se fosse vera questa seconda ipotesi potrebbero aver concorso al temporaneo digiuno elettorale anche fattori che esulano dallo stretto rapporto con la politica ma che investono slittamenti antropologici conseguenza dello choc pandemico. Una maggiore attenzione alla vita «minima», al privato e alla prossimità, persino alla ripresa dei consumi, può aver determinato nell’immediato per gli elettori con meno reddito e scolarità — quell’area che i sondaggisti chiamano «le periferie» — un’accentuazione della distanza dalla res publica. La stessa cosa non è avvenuta per gli abitanti dei quartieri centrali delle grandi città che, pur investiti nel post-Covid dalle stesse domande di significato, sembrano aver deciso di continuare a presidiare la sfera delle decisioni pubbliche, tanto più in una stagione — come quella che si annuncia — caratterizzata da tante discontinuità. L’astensionismo selettivo si può spiegare (anche) così.