Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Le rilevazioni nazionali che danno Trump in caduta, al 39 per cento, hanno un valore relativo. Lui nel 2016 ha vinto pur prendendo tre milioni di voti meno di Hillary Clinton
Joe Biden si batte con coraggio, ma sembra sempre più il vecchio capobranco assediato da giovani scalpitanti decisi a detronizzarlo in una lotta mortale. A sinistra, intanto, conquista consensi Elizabeth Warren con le sue parole d’ordine radicali. Se l’altro grande vecchio dei liberal americani, Bernie Sanders, alla fine le cederà il passo, potrebbe essere lei a conquistare la nomination del fronte progressista per le elezioni presidenziali Usa del 2020. Nell’incubo senza fine che è diventata, da tre anni a questa parte, la politica americana in balia di un Trump che ne ha fatto saltare i meccanismi democratici di bilanciamento, ha demolito il suo stesso partito e imposto una leadership pericolosamente instabile, la ricerca del candidato democratico da opporgli nella corsa alla Casa Bianca sta diventando, a sua volta, un dramma in slow motion: un partito spaccato, investito e influenzato dai germi del populismo e dell’isolazionismo trumpiano, privo di leader carismatici, che teme di non riuscire a battere un presidente che giudica pericoloso e che è detestato dai più. L’anomalia di un uomo solo al comando che epura periodicamente tutti i suoi collaboratori dovrebbe essere solo un incidente della storia, vista anche la scarsa popolarità di The Donald fotografata dai sondaggi nazionali. E, invece, la forza della sua base elettorale, minoritaria ma compatta, può garantirgli la riconferma mentre il suo stratega politico, Brad Parscale, prevede, addirittura, l’inizio di una dinastia politica trumpiana.
Fare previsioni a più di un anno dal voto e a cinque mesi dall’inizio della stagione delle primarie è esercizio assai rischioso: gli umori degli elettori possono essere alterati da una grossa crisi internazionale come una guerra nel Golfo, da crolli finanziari sempre possibili o dal forte rallentamento dell’economia americana (se non una vera recessione, al momento improbabile) che ha già cominciato a materializzarsi. Le rilevazioni nazionali che danno Trump in caduta, al 39 per cento, hanno un valore relativo. Lui nel 2016 ha vinto pur prendendo tre milioni di voti meno di Hillary Clinton. Secondo le proiezioni degli analisti potrebbe farcela di nuovo anche con sei milioni di voti in meno: i plebisciti democratici in California o nello Stato di New York servono a poco quando con le regole — squilibrate ma ineluttabili — dell’electoral college, l’esito del voto si deciderà negli Stati in bilico dell’interno, dal Wisconsin all’Ohio.
La ricerca di un candidato giovane, dinamico, capace di conquistare la «pancia» dell’America, non ha dato buoni frutti. Beto O’Rourke e Pete Buttgieg, rappresentanti di questa America di mezzo, benché apprezzati per il loro buon senso, non hanno mai sfondato nel gradimento degli elettori. Kamala Harris, nella quale molti vedevano una possibile Obama al femminile, capace di vincere, come Barack, anche lontano dalla costa atlantica e dagli Stati del Pacifico, ha perso quota dopo una partenza bruciante. Pochi credono oggi che negli Stati-chiave possa vincere una donna nera che negli ultimi mesi, trascinata dal successo della sinistra alle elezioni di mid term 2018, ha abbracciato parti delle ricette dell’agenda economica dei radicali.
Di nuovo: quando gli elettori democratici, a febbraio, cominceranno a votare, potranno anche rivoluzionare il quadro attuale. Beto o Buttgieg, oggi residuali nei sondaggi, potrebbero anche risorgere attraendo i democratici moderati qualora la stella di Biden, che in pochi mesi ha già perso dieci punti percentuali nelle rilevazioni, dovesse appannarsi ulteriormente. Ma oggi è ancora lui il battistrada e l’unico argine a una sinistra radicale che si è convinta di poter scalzare Trump anche senza corteggiare i moderati: insieme a tante regole del galateo democratico, il presidente immobiliarista ha demolito anche il teorema secondo il quale in America le elezioni si vincono al centro.
E oggi la Warren, meno rigida e più empatica man mano che va avanti nella sua campagna, è anche la candidata che, dalla lotta ai cambiamenti climatici alla necessità di ridurre le diseguaglianze economiche, ha elaborato il programma più serio e articolato. Un progetto nitido che va ben oltre gli slogan massimalisti di Sanders, lodevole ritorno alla politica dei contenuti. Trump comincia a temerla: difficile abbattere con sarcasmo e insulti una donna tosta e al tempo stesso garbata, che replica sempre nel merito. Ma le sue sono proposte radicali, almeno secondo il metro di giudizio americano. La sanità universale, un’ovvietà per noi europei, ormai piace anche a molti americani, ma divide le parti dell’America nelle quali il servizio pubblico è vissuto come ingerenza indebita dello Stato centrale. Tassare di più ricchi e imprese, imporre protezioni per i lavoratori dopo anni di profitti eccezionali è ragionevole, ma spaventa. Spesso semplifichiamo dicendo che spaventa Wall Street: in realtà, oltre alla casta dei finanzieri, si mettono in allarme anche decine di milioni di lavoratori che, negli anni della vecchiaia, dovranno sopravvivere coi rendimenti di fondi-pensione in gran parte investiti in Borsa.
Ma la contraddizione più forte è, forse, quella che riguarda l’emergenza ambientale. Sacrosanta la rivolta contro l’insensibilità di Trump. Il Green New Deal democratico è un piano ambizioso, che richiede investimenti enormi: può rivitalizzare l’economia o burocratizzarla, aprendo le porte a nuove forme di statalismo. Ma la Warren può inciampare su qualcosa di molto più piccolo. Il suo piano prevede il blocco fin dal primo giorno, dell’uso delle tecniche di fracking per estrarre petrolio e gas. Ohio e Pennsylvania, decisivi per l’elezione e con un’economia in buona parte rivitalizzata proprio da questi nuovi sistemi di estrazione degli idrocarburi, la voteranno? Trump è arrivato alla Casa Bianca anche grazie a una battaglia anacronistica come quella della difesa del carbone.