Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
In una situazione di gravissima emergenza come l’attuale è inevitabile che il potere decisionale si centralizzi. Ma la democrazia è un meccanismo fragile, fondato su delicati equilibri: non ci vuole molto a comprometterli
Per quanto tempo, in una democrazia (molto) difficile come la nostra, il Parlamento può essere commissariato di fatto prima che ciò produca conseguenze irreversibili? Prima, cioè, che in tanti si convincano che del Parlamento si possa anche fare a meno? Si ricordi che in questo Paese l’attuale partito di maggioranza relativa è nato come forza programmaticamente antiparlamentare. E che, inoltre, secondo certi sondaggi, in questo momento un’ampia fetta di italiani simpatizza per Russia e Cina mentre è ostile a Stati Uniti e a Germania. In una situazione di gravissima emergenza come l’attuale è inevitabile che il potere decisionale si centralizzi e che quindi le assemblee parlamentari perdano temporaneamente peso e influenza. Di più: è, in larga misura, necessario che ciò avvenga, checché ne dicano certi puristi della democrazia privi di senso della realtà. In una condizione di emergenza il primo problema è affrontare l’emergenza, punto. Anche, quando serve (e in questo frangente è servito) con restrizioni delle libertà individuali: per esempio della libertà di movimento o del diritto di disporre liberamente delle proprie proprietà, aziende comprese. Magari sarebbe più costituzionalmente corretto (o perlomeno elegante) se certi provvedimenti non venissero presi solo per via amministrativa ma ottenessero anche la formale approvazione del Parlamento. Però l’emergenza va fronteggiata. A caval donato non si guarda in bocca, primum vivere, eccetera eccetera. Tutto ciò però riguarda il breve, brevissimo periodo. Se l’arco temporale si allunga allora cambia tutto: perché, senza che i più nemmeno se ne accorgano si va tutti a finir male, ci si ritrova ad avere abrogato di fatto (non temporaneamente sospeso) le garanzie costituzionali per via amministrativa.
Lo scenario politico futuro che alcuni dei più attenti osservatori della nostra vita pubblica immaginano, non è rassicurante. Di fronte alla rovinosa caduta del Pil e alle inevitabili ripercussioni sociali e politiche, si pensa che l’attuale governo non possa reggere a lungo. Soprattutto a causa del processo, che sembra irreversibile, di disgregazione dei 5 Stelle, il partito di maggioranza relativa. Si ipotizza che l’attuale formula di governo venga presto sostituita da una qualche forma di solidarietà nazionale: in pratica, il solito governo tecnico, o governo del presidente sostenuto per l’occasione da un ampio arco di forze parlamentari: dal Pd a Forza Italia a quella parte dei 5 Stelle che, con la solita scarsa fantasia italica, verrebbe subito battezzata dei «responsabili». Per reggere, una simile alleanza parlamentare dovrebbe coinvolgere in un modo o nell’altro anche Salvini e Meloni. In effetti, non è fantapolitica. Se, come si prevede, la crisi economico-sociale sarà gravissima, molte forze politiche potrebbero trovare conveniente mettere temporaneamente la sordina alle reciproche ostilità. Provocherebbero mal di pancia nei più esagitati e settari dei loro sostenitori ma col vantaggio di apparire affidabili agli occhi di molti elettori.
C’è però un grande ostacolo. Di solito, questo tipo di formule è realizzabile se il Parlamento è in mano a forze centriste. Ma le forze centriste, nel Parlamento italiano di oggi, sono in minoranza. Il centro (i renziani a sinistra e i berlusconiani a destra) subì una drammatica sconfitta alle elezioni del 2018. Da allora il Parlamento è dominato dalle estreme. È improbabile che le estreme, per quanto in difficoltà, possano rappresentare una base parlamentare affidabile per governi come quello sopra immaginato. Oltre alla difficoltà di realizzazione c’è un altro problema. I governi tecnici o del presidente (come fu il governo Monti) si reggono solo se, una volta ottenuto il voto favorevole del Parlamento, possono farne a meno di fatto. In sostanza, un governo del genere sarebbe, da questo punto di vista, non molto diverso dall’attuale governo Conte. Opererebbe anch’esso in nome dell’emergenza (non più la pandemia ma la crisi economica) di fatto privo di controllo parlamentare. Il che ci riporta alla domanda iniziale: per quanto tempo una situazione del genere può reggere prima che le conseguenze (politico-costituzionali) diventino irreversibili?
Quando si parla di fase 2 (e oltre) si pensa, come è giusto, a come riportare la vita economica alla normalità. Benissimo ma occorre anche non dimenticare che le libertà economiche e politiche vivono insieme (e cadono insieme). Ritornare a quella normalità significa ridare slancio all’economia di mercato. Ma per farlo non basta consentire alle imprese di riprendere le attività. Occorre anche decidere il percorso che porti al ripristino pieno delle libertà individuali. E non sto parlando solo della pur importantissima libertà di movimento. Ad esempio, come si fa ad evitare il rischio che in Italia e altrove l’uso delle tecnologie utili per tracciare i movimenti del virus non si trasformi in un mezzo permanente di controllo governativo sulle vite di tutti? Da questo punto di vista, possiamo dire, «la Cina è vicina». Maledettamente vicina. Davvero tutto ciò non riguarda la fase 2? Si sa che, non solo in Italia, alle libertà politiche e civili sono interessate soprattutto le minoranze. Le maggioranze, di norma, sono meno sensibili. Si pensi, ad esempio, al disinteresse da sempre mostrato dalla maggioranza degli italiani per gli abusi delle intercettazioni telefoniche.
In vari Paesi, in Europa come in America Latina, la pandemia attuale sembra essere l’occasione per giri di vite autoritari. Ma, attenzione, l’autoritarismo non si manifesta sempre platealmente (colpi di Stato, marcia su Roma, eccetera). Può anche affermarsi in modi molto più striscianti e subdoli, un passo dopo l’altro, e per giunta senza che nessuno ne abbia pianificato gli esiti. La democrazia (l’unica possibile, quella liberale e occidentale) è un meccanismo fragile, fondato su delicati equilibri. Non ci vuole molto a comprometterli. Ciò vale, a maggior ragione, per una democrazia difficile che ben conosce, e da tanto tempo, sofferenze costituzionali e squilibri fra i poteri. Converrebbe pensarci e stare in guardia.