La carenza di manodopera ormai convive con livelli ancora elevati di disoccupazione, soprattutto giovanile, an che perché i ragazzi sono diventati più esigenti
A Brescia tra gli imprenditori gira una storiella. Dice che mentre un tempo i colloqui per le assunzioni si concludevano con un «grazie, le faremo sapere» dell’azienda al candidato, ora finiscono con un «grazie, vi farò sapere» del candidato all’azienda. E il presidente della Camera di Commercio, Roberto Saccone, mi assicura che non è una battuta: sempre più spesso le cose vanno proprio così.
Un po’ in tutt’Italia le imprese lamentano una crescente carenza di manodopera. L’aneddotica è ricca, e non risparmia neanche le aree più industriose e le comunità più permeate da un’antica cultura del lavoro, come appunto Brescia e la sua provincia (non a caso la prossima Futura Expo delle imprese bresciane metterà questo tema tra gli obiettivi di sostenibilità, al pari di energia e ambiente).
Nelle rilevazioni statistiche la carestia di lavoro viene indicata sempre più in alto tra i fattori di rischio per la ripresa e la crescita. Per quanto paradossale, il fenomeno ormai convive con livelli ancora elevati di disoccupazione, soprattutto giovanile. E seppure siamo ben distanti dalle dimensioni che ha assunto negli Usa, durante e dopo il Covid, la cosiddetta «Great Resignation» (o «Big Quit»), anche in Italia abbiamo toccato una cifra record nell’anno appena finito: più di un milione e seicentomila persone hanno lasciato volontariamente il lavoro nei primi nove mesi del 2022, e il trend è in continua crescita.
Ci sono ovviamente numerosi e importanti fattori sociali dietro questa specie di sciopero del lavoro, e il Corriere li ha più volte analizzati. Tra gli altri, un sistema scolastico che, carente sotto molti aspetti formativi, lo è ancor di più per quanto riguarda l’orientamento, la capacità cioè di indirizzare i giovani verso gli studi a loro più consoni e i lavori più richiesti. Questo crea spesso un mismatch tra le esigenze delle imprese e le abilità professionali acquisite dai futuri lavoratori. Maggiore fortuna dovrebbero per esempio avere, in un Paese manifatturiero come il nostro, gli Its (Istituti Tecnici Superiori), scuole di eccellenza tecnologica post-diploma.
Ma poiché il fenomeno riguarda ogni tipo di lavoro, non solo quelli qualificati ma anche i «generici», bisogna prendere atto che ha radici più profonde.
È probabilmente in corso una vera e propria rivoluzione culturale intorno al «valore-lavoro». Molti l’attribuiscono all’importanza che oggi i giovani danno alla qualità della vita: sono sempre meno disposti a sacrificarla sull’altare del lavoro. È una tesi che implicitamente accusa i nostri figli di non aver abbastanza voglia di lavorare. Ma il rilievo che ha assunto l’aspirazione individuale a realizzarsi, la voglia dei ragazzi di perseguire un progetto di vita soddisfacente e piena, funziona anche nell’altro senso: li spinge cioè a dare invece una grande importanza al lavoro che faranno, alla sua dignità e remunerazione, a non arrendersi a ricatti e precarietà, bassi salari e orari lunghi, dequalificazione professionale o addirittura abusi. E questo è un bene: la qualità del lavoro è oggi considerata parte integrante della qualità della vita.
I più anziani sono soliti dire: «Ai miei tempi si cercava un lavoro»; oggi, una o due generazioni dopo, è comprensibile che giovani scolarizzati ed esigenti cerchino qualcosa di più di un lavoro purchessia, o che chiedano di più al lavoro. Sono cambiamenti che stanno producendo effetti perfino sulla politica: la crisi delle sinistre laburiste e riformiste si spiega anche così, e va a vantaggio di movimenti populisti che chiedono allo Stato di sostituire il salario come principale fonte di reddito, o addirittura di movimenti antagonisti che rifiutano tout court il lavoro dipendente come forma di sfruttamento.
D’altra parte il lungo apprendistato alla flessibilità è stato alla fine interiorizzato dalle giovani generazioni; avendo ormai capito che un lavoro non è per sempre, sanno anche che si può cambiarlo frequentemente per scelta, oltre che per costrizione. E infatti insieme alle dimissioni volontarie crescono le nuove attivazioni di contratti, il che significa un flusso dinamico da un’occupazione all’altra, un forte turn over.
A questo si aggiunge poi la rivoluzione tecnologica: l’esperienza dello smart working durante il Covid ha convinto molti che scegliere il lavoro a sé più adatto, aggiustarne gli orari alle esigenze di vita e familiari, ridurne lo stress e il costo del pendolarismo, è oggi possibile.
Queste sono tendenze da cui non torneremo indietro. Non c’è un «prima» che possa essere restaurato sulla base di un appello ai giovani a tornare all’etica del lavoro dei genitori. È dunque giunto il momento di provare a rendere il lavoro più attraente. Innanzitutto dal punto di vista del salario: lo Stato dovrebbe fare piazza pulita di questi anni di «bonus» trasversali, che vanno a chi ne ha bisogno ma anche a chi no, e concentrare il massimo della sua potenza di fuoco nel ridurre la tassazione a carico del lavoro, per mettere più soldi nelle buste paga. Ma serve un cambiamento anche da parte delle imprese: per accrescere la parte creativa, le opportunità di partecipazione, la flessibilità oraria e il livello di autonomia nei lavori che esse offrono ai giovani. La tecnologia spesso lo consente. Le vecchie abitudini spesso lo impediscono.
Tutte queste osservazioni non possono però oscurare il punto cruciale: la scarsità della materia prima. Prima ancora dei lavoratori mancano infatti i giovani. Nel 1964, al culmine di quel baby boom le cui coorti stanno ora andando in pensione, nacquero in Italia più di un milione di bambini. I neonati del 2000, che hanno oggi vent’anni e si affacciano al mercato del lavoro, furono poco più della metà. L’anno scorso sono nati meno di 400mila bambini. Di questo passo è inevitabile una carestia di forza lavoro, che può cambiare il destino di un grande Paese ricco ed esportatore come l’Italia. Forse per la prima volta cominciamo a toccare con mano le conseguenze antropologiche dell’inverno demografico.