19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Erensto Galli La Loggia

Di fatto ormai in Italia veri partiti nazionali da tempo non esistono più. La conseguenza è stata la virtuale frantumazione del nostro sistema politico


Non è il Covid che sta mettendo in ginocchio l’Italia. O meglio non è solo
il Covid: è il Covid e le Regioni, il micidiale intreccio delle due cose. L’opinione pubblica sembra convincersene ogni giorno di più, sicché quando ci sarà il tempo e la calma bisognerà assolutamente rivedere l’ordinamento regionale attuale, magari allo scopo — mi permetto di suggerire — di tornare alla Costituzione. Alla Costituzione originaria, intendo, quella in vigore dal 1948 al 2001. Prima cioè che una decisione sciagurata spingesse la Sinistra a modificare l’ordinamento della Repubblica assegnando alle Regioni una somma di poteri che ne hanno fatto un virtuale contropotere dello Stato centrale.
I padri costituenti previdero l’esistenza di una struttura regionale ma saggiamente ne limitarono la portata a un ambito rigorosamente amministrativo, secondo quello che era stato l’auspicio delle forze democratiche fin dall’Unità. Fu in tale prospettiva che nel 1970 s’iniziò ad attuare il dettato costituzionale, ad esempio prescrivendo (pare di sognare) che le Regioni potessero assumere direttamente personale ma solo in misura minima, dovendosi perlopiù servire di quello trasferito loro dalle varie amministrazioni statali. Un pio desiderio, come fu subito chiaro. A partire dal 1970, infatti, le Regioni in un modo o nell’altro non fecero altro che allargare di continuo competenze, poteri e naturalmente numero d’impiegati. Fino alla svolta della modifica caldeggiata dalla Sinistra di cui dicevo all’inizio. Fu la svolta decisiva: dal decentramento amministrativo dello Stato si passò a una struttura istituzionale del Paese del tutto nuova, realizzando in tal modo un’indubbia frattura di tipo anche politico con il passato. Basta leggere le parole iniziali di due articoli (il 114 e il 117) del nuovo testo costituzionale: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» (tutti sullo stesso piano…) e «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni» (idem). La conseguenza è stato un rilevantissimo passaggio di competenze alle Regioni stesse o la possibilità data loro di partecipare in una serie di decisioni del governo centrale.
Un ordinamento regionale così marcatamente autonomistico ha rilanciato a dismisura un dato storico della Penisola: il localismo. Che in Italia non è tanto il legittimo orgoglio delle proprie origini e dei suoi luoghi, un lodevole sentimento di affetto per entrambi e per la propria comunità, ma tende subito a divenire qualcos’altro. Una meschina diffidenza per tutto ciò che non è «di casa», una gelosa avversione di principio verso quanto è più grande, la presunzione di saper far meglio da soli. Non solo, dal momento che nella Penisola la dimensione locale e il localismo hanno voluto dire sempre altre cose ancora: hanno voluto dire l’arroganza sociale dei notabili, il potere ereditario di «quelli che contano» e che si conoscono tutti; la prepotenza degli interessi economici abituati a imporre la propria volontà, la troppo frequente arrendevolezza di chi viceversa dovrebbe rappresentare l’interesse pubblico.
L’esperienza politica regionale ha assorbito questi caratteri negativi incistati nell’organismo del Paese dilatandoli e quindi rafforzandoli grazie a una dimensione geograficamente più ampia e istituzionalmente ben più incisiva di quella tradizionale. In un processo che ha preso un ritmo irrefrenabile a causa dello spappolamento del quadro politico nazionale.
Fino ad una certa data infatti la spinta alla frantumazione regionalistica e alla volontà di potenza dei suoi rappresentanti si è scontrata contro due ostacoli. In primo luogo contro strutture di partito dotate di una più o meno effettiva capacità di direzione, la cui esistenza valeva ad assicurare non solo una certa omogeneità d’indirizzo del partito stesso nell’intero Paese ma anche un vaglio e una cernita da parte del centro dei gruppi dirigenti locali. In secondo luogo contro l’ostacolo rappresentato dalla presenza al centro, a Roma, di una compagine di governo dotata a vario titolo di una qualche autorevolezza, vuoi per la forza politica della sua maggioranza, vuoi per la personalità del presidente del Consiglio e di almeno una parte dei ministri.
Il precipizio è iniziato quando entrambi questi ostacoli sono venuti meno. Emblematica in questo senso è stata la parabola del Partito democratico, che in certo senso era l’erede dell’intera tradizione partitica nazionale. Il suo disfarsi in questi anni ha voluto dire che di fatto ormai in Italia veri partiti nazionali da tempo non esistono più. Non esiste più alcun partito, cioè, in grado di designare in periferia candidati di propria scelta. La conseguenza è stata la virtuale frantumazione del nostro sistema politico in una molteplicità di subsistemi politici regionali ognuno deciso a fare da sé, soprattutto ognuno diretta emanazione di un ras locale. In Liguria, in Veneto, in Campania, nelle Puglie, in Emilia, infatti, non esistono né la Lega, né Forza Italia né il Pd: esiste solo il partito di Toti, di Zaia, di De Luca, di Emiliano, di Bonaccini. E nei loro feudi vorrebbero comandare solo loro, solo loro contrattare con gli interessi locali di cui vogliono restare buoni amici, solo loro decidere l’apertura delle discoteche, decidere quando fare il lockdown e quando no, stabilire sempre chi e come assumere o a quale clientela dare i soldi che vorrebbero amministrare in quantità sempre maggiore. Naturalmente sempre in nome dell’autonomia dei «territori» e sempre evitando le decisioni impopolari. Quelle semmai le prenda il governo (così consentendogli di protestare…).
La loro buona sorte ha voluto che oggi proprio questo ostacolo, anche l’ostacolo del governo che finora si opponeva in qualche modo al localismo regionale, venisse meno. Ormai sono anni infatti che per mille ragioni il governo centrale italiano sta perdendo forza e capacità di direzione, sta vedendo scemare ogni giorno il suo controllo sull’operato delle proprie amministrazioni e sulla vita reale del Paese. Ormai sono anni che da esso e dai suoi uomini non viene più alcuna idea generale, alcuna iniziativa di respiro, alcun impulso significativo. Che la sua leadership va riducendosi a nulla. Tanto più oggi quando vi è un presidente del Consiglio privo di una forte autorevolezza, senza alcun passato e dall’incerto avvenire. Un presidente che come se non bastasse si appoggia a una maggioranza che al proprio centro ha una sorta di partito ormai fantasma, i 5 Stelle, che tutti sanno che domani non avrà più la consistenza attuale, forse alcuna consistenza del tutto.
Spesso nella vita politica capita che un fenomeno di rilievo esprima simbolicamente il proprio significato in un luogo, in un’immagine. Nell Italia di oggi quel luogo e quell’immagine sono le notti di Palazzo Chigi quando viene l’ora di decidere qualcosa d’importante che riguarda noi tutti. Quando però, a leggere le cronache, le stanze del potere non sono più del loro inquilino ufficiale ma si trasformano in un confuso e insonnolito accampamento di «tavoli regionali», di esperti, di delegazioni, commissioni tecniche, di ministri e governatori via Skype, con ognuno che fino all’alba dice la sua, che reclama qualcosa, che propone, che promette, che minaccia, che pone un veto, che scrive una bozza, che la corregge una, due, dieci volte. Ma fino a quando, questa è la domanda, fino a quando tutto ciò può durare?

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