19 Settembre 2024
immigrazione centri accoglienza (1)

L’Europa soffre ancora oggi di antichi errori legati a due trattati fondamentali: Schengen e Dublino

Le migrazioni tornano a incendiare la politica europea e, sia pure in scala minore, quella di casa nostra. Siamo assai lontani, certo, dalla crisi che nel 2015-16 scatenò la prima fiammata sovranista, fece da propellente alla Brexit e da moltiplicatore di voti per i leader xenofobi di allora. Tuttavia, antiche paure e consuete strategie di consenso sono di nuovo fra noi. Sicché il neopremier francese Barnier si copre a destra dialogando con Marine Le Pen. E, soprattutto, il debole cancelliere tedesco Scholz, dopo l’attacco islamista a Solingen, blinda per sei mesi il suo Paese con controlli ferrei alle frontiere e riapre il dossier sui respingimenti dei «dublinanti» che coinvolge direttamente gli Stati di primo approdo come il nostro. Cos’è accaduto? Semplice. Nell’ultimo decennio s’è assottigliato di nuovo un margine decisivo: fattori di instabilità quali la guerra di Putin, la crisi energetica con annessa inflazione e l’impoverimento crescente delle classi lavoratrici hanno ristretto di molto la riserva di tolleranza degli autoctoni verso gli ultimi arrivati, specie in quei quartieri, in quelle città o in quei territori dove la precarietà economica è più diffusa: tra i dimenticati. Iconico «Wir schaffen das», ce la faremo, scandito l’estate di nove anni fa da Angela Merkel di fronte al subitaneo apparire di un milione di profughi alle frontiere tedesche, è stato un generoso manifesto ma anche una previsione sbagliata.
La campana della Turingia e della Sassonia suona adesso per tutte le democrazie dell’Unione. La sola idea che un partito dalla semantica nazista possa puntare al governo di un pezzo di Germania, sognando addirittura la presa di Berlino, mette i brividi.
Ma noi non siamo quel pezzo di Germania. Non ci trasciniamo dietro la tara di una dittatura comunista che per mezzo secolo ha annichilito nei tedeschi dell’Est senso religioso, corpi intermedi indipendenti, cultura della libertà e dell’impresa. E non siamo la Francia delle banlieue, con la sua carica di rancore derivata da un passato coloniale mai metabolizzato. Proprio per questo è fuori luogo l’uso fazioso di eventi di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica nazionale. Sovrapporre l’immagine dell’assassino della giovane Sharon Verzeni, uno squilibrato italiano di seconda generazione con ascendenze maliane, alla grande questione di una riforma della legge sulla cittadinanza, per screditare così i progetti di ius scholae sgorgati (nuovamente) dal dibattito estivo, è una forzatura. Vale qualche like su qualche brutto post, non certo la seria posizione politica di un partito al governo del Paese. E soprattutto non rende giustizia a quel milione di bambini e ragazzi nati o cresciuti qui, compagni di banco dei nostri figli, emozionati dall’inno e dal tricolore proprio come lo straripante romano di famiglia srilankese «Rigi» Ganeshamoorthy, medaglia d’oro alle Paralimpiadi e nuovo beniamino social. Bene ha fatto Giorgia Meloni a distanziarsi in tv dalle speculazioni sulle origini familiari dell’assassino di Sharon, trasmettendo un messaggio di razionalità. È ai tanti «Rigi» fra noi e non alla solitaria devianza patologica di Moussa Sangare che è sensato guardare. La questione migratoria va affrontata con cuore caldo e testa fredda, coniugando solidarietà e sicurezza.
È di tutta evidenza che la nostra Europa soffre ancora oggi di antichi errori legati a due trattati fondamentali. Con Schengen è stata creata un’immensa area di libera circolazione senza provvedere alla difesa comune dei confini esterni e con Dublino è stata minata alla radice la solidarietà nella gestione dei flussi in arrivo. Ovvio che un Paese come il nostro, proiettato nel Mediterraneo, ne sconti il prezzo maggiore. Ma è altrettanto ovvio che una politica insieme accorta e visionaria può tramutare questo prezzo in un vantaggio.
A fine agosto uno studio della Cgia di Mestre ha evidenziato come nel nostro Mezzogiorno si paghino più pensioni che stipendi, aggiungendo che presto il sorpasso sarà compiuto anche nel resto d’Italia. Il dato, coniugato con la crisi demografica, rende evidenti due conseguenze: la prima è l’impossibilità di anticipare i pensionamenti e la vacuità di slogan quali l’eliminazione della legge Fornero; la seconda è la necessità di un’immigrazione funzionale all’Italia. La revisione della nostra vecchia legge sulla cittadinanza del 1992 (ancora basata sullo ius sanguinis e dunque tutta tarata sul Paese di emigranti che fummo) viene ora proposta anche in via referendaria da un largo comitato di sigle. Può essere un passaggio sul quale la destra sbaglierebbe ad arroccarsi, specie dopo avere riconosciuto la necessità di integrare gli stranieri con un decreto flussi record da quasi mezzo milione di ingressi in tre anni. Le seconde generazioni che, ricordiamolo, non sono composte da immigrati ma da ragazzi già inseriti tra noi, possono essere un ponte prezioso tra culture.
Ma un compito serio grava anche sull’opposizione e, nello specifico, sulla sinistra: riconoscere che la sicurezza non è un valore oscuramente fascistoide ma una funzione democratica di garanzia per i cittadini più deboli. Contro il delirio della «remigrazione» teorizzata da Alternative für Deutschland non serve strillare ma agire nelle nostre periferie urbane ed esistenziali. Distinguere tra rifugiato e migrante. Tra tolleranza e lassismo. Se a pochi metri dalla stazione Termini di Roma, lungo le Mura Aureliane, nasce una tendopoli di richiedenti asilo e fuggiaschi dei centri d’accoglienza, far finta di nulla è sbagliato. Il distinguo non sta nel colore della pelle: ma tra chi ha e chi non ha, tra un tetto e una canadese, tra chi ha paura e chi ne incute. Enfatizzare i disagi senza avere soluzioni è la ricetta del peggiore populismo. Ma l’antidoto non è voltarsi dall’altra parte.

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