La Russia ha testato l’«Oreshnik» in Ucraina. La Ue, come fece negli anni 70, deve pensare a come difendersi
Quando nell’ottobre 1977, il cancelliere tedesco Helmut Schmidt lanciò l’allarme sugli euromissili, furono in molti a criticarlo in Europa. Troppo guerrafondaio, poco dialogante con Mosca.Eppure, i fatti erano davanti a tutti: una nuova generazione di missili balistici sovietici stava alterando l’equilibrio strategico nel teatro europeo. Mosca aveva iniziato a installarli già dal 1976. Con testata atomica multipla e un raggio di quasi 5 mila chilometri, gli SS20 potevano distruggere in brevissimo tempo ogni città d’Europa partendo dal territorio dell’Urss. Schmidt evocò lo spettro del «decoupling» della difesa europea da quella americana: sarebbero stati pronti gli Stati Uniti a sacrificare «Pittsburgh per Parigi» o «Boston per Bonn»? In assenza di un’arma di teatro, cioè missili intermedi schierati sul territorio europeo, la sola risposta possibile dell’America sarebbe stata infatti il lancio di missili atomici intercontinentali contro l’Urss, che l’avrebbe però esposta a una sicura rappresaglia sovietica sulle sue città. Detto altrimenti, l’Olocausto nucleare.
L’appello del cancelliere venne ascoltato. E il resto è Storia. Con la doppia decisione del 1979, la Nato decise l’installazione in Europa dei Pershing II e Cruise (in Italia furono schierati a Comiso) e contemporaneamente l’apertura di un negoziato con Mosca. Schmidt pagò caro il suo coraggio: travolto dalla protesta pacifista, cui presero attivamente parte i giovani del suo partito, la Spd, venne abbandonato dagli alleati liberali, che nel 1982 si coalizzarono con la Cdu-Csu portando al governo Helmut Kohl. Gli euromissili vennero installati. Ma anche la trattativa andò a buon fine: nel 1987, Reagan e Gorbaciov firmarono il Trattato INF che li eliminava, primo e unico accordo del suo genere nella storia del disarmo.
È passato quasi mezzo secolo. Ma sullo sfondo della guerra in Ucraina, l’incubo degli euromissili torna a inquietare le cancellerie e gli Stati maggiori d’Europa. Il 21 novembre scorso, un missile sperimentale russo ha colpito la città di Dnipro. Battezzato «Oreshnik», ha colto tutti di sorpresa, non facendo ufficialmente parte dell’arsenale di Mosca. Il missile naturalmente non aveva una testata nucleare, ma da quel momento Vladimir Putin non ha smesso di parlarne, agitando la minaccia atomica. Il capo del Cremlino ha anche detto che l’Oreshnik potrebbe essere schierato in Bielorussia, in base al trattato firmato con Minsk nel 2024. Poi da vero bullo, nella conferenza stampa di fine d’anno, Putin ha sfidato l’Occidente a un «duello tecnologico»: «Noi lanciamo il nostro missile e voi cercate d’intercettarlo con il più avanzato dei vostri sistemi di difesa».
Quasi 5 mila chilometri di raggio, in grado di portare fino a sei testate convenzionali o nucleari indipendenti, l’Oreshnik è un’arma terrificante: è in grado di colpire (e distruggere, nella variante atomica) qualsiasi città europea, in un tempo compreso tra 10 e 20 minuti, con una precisione inferiore a dieci metri. Nella fase discendente, infatti, un missile balistico come quello russo acquista velocità grazie all’energia cinetica, arrivando fino Mach 10, dieci volte la velocità del suono. Secondo l’ammiraglio francese Pierre Vandier, dal 2024 comandante supremo alleato per la trasformazione della Nato, «gli IRBM (missili balistici intermedi) sono l’artiglieria del futuro».
Il Trattato INF non esiste più. Dopo anni di violazioni da parte dei russi, che dicevano di fare test di missili intercontinentali (ammessi) salvo poi ridurne la gittata togliendo uno stadio del vettore, gli americani lo denunciarono nel 2019, sotto il primo Trump, seguiti poco dopo da Mosca. Ma nessuno è innocente nel crollo dell’architettura del disarmo, che pur tra molte doppiezze aveva retto anche dopo la fine della Guerra Fredda: fu per prima l’Amministrazione di George W. Bush, nel 2002, a far saltare una tessera cruciale del mosaico, ritirandosi unilateralmente dal Trattato Abm, l’intesa che limitava lo spiegamento di sistemi di difesa antimissile.
La decisione di Putin di «mostrare» l’Oreshnik non nasce tuttavia nel vuoto. Nel luglio 2024, al vertice Nato di Washington, Usa e Germania hanno infatti annunciato lo spiegamento sul territorio tedesco a partire dal 2026 di diversi tipi di missili IRBM, come gli SM-6 terra-aria, i Tomahawk terra-terra ma anche quelli ipersonici di ultima generazione Dark Eagle. Un impegno tutto da verificare con la nuova Amministrazione Trump. Ma a spingere il Cremlino alla dimostrazione di forza è stato anche il fatto che la minaccia di usare armi nucleari tattiche contro Kiev non ha dissuaso gli ucraini dal colpire obiettivi in profondità nel territorio russo.
Detto che l’Oreshnik inserisce una pericolosa variante nella difesa europea, la situazione però è molto cambiata rispetto al 1987. E non necessariamente in peggio. L’Europa, infatti ha le capacità di costruire sistemi simili. MBDA, per esempio, il consorzio europeo italo-franco-tedesco-britannico specializzato in missili e tecnologie per la difesa, sta sviluppando un nuovo missile da crociera «deep strike». Ma, e qui si torna al tema della difesa europea, occorreranno risorse che al momento non si vedono e in ogni caso i tempi sono lunghi.
Il problema vero è che, a differenza della Guerra Fredda, USA e Russia non hanno più il monopolio missilistico globale e oggi un negoziato bilaterale tipo l’INF non sarebbe più realistico, facile o, ammesso che venga concluso, applicabile. Molto più sensato per l’Europa prepararsi a una nuova corsa agli armamenti.