Le differenze tra le operazioni militari di Israele a Gaza e in Libano
Può sembrare cinico dirlo, perché tutti odiamo le guerre come l’atto più atroce che possa compiere il genere umano, e tutti dobbiamo aver rispetto di ogni vita, anche di quella del peggior delinquente: ma uccidere i capi di Hezbollah è di gran lunga più comprensibile e moralmente accettabile che uccidere decine di migliaia di palestinesi inermi. Non è certo per motivi etici che l’azione chirurgica di Israele in Libano ha subito molte meno condanne dell’invasione di Gaza. Sia Washington, sia i regimi musulmani sunniti, e perfino una parte non irrilevante della cosiddetta «strada araba», riconoscono infatti, esplicitamente o implicitamente, le ragioni di Israele perché sono anche le loro. Perché il nemico del mio nemico è mio amico, e il Medio Oriente è pieno di gente che teme Hezbollah e l’Iran più di Israele.
Ma pure al di fuori di una logica puramente politica o di interesse, anche all’uomo comune in Occidente, educato alla religione dei diritti umani, l’azione di Netanyahu deve sembrare stavolta più ragionevole e giustificata. E non solo per il minor numero delle vittime collaterali che ha prodotto, pur sempre altissimo eppure incomparabile al massacro nella Striscia. Ma anche in ragione di quel «diritto naturale alla legittima difesa» che la Carta dell’Onu riconosce agli Stati aggrediti.
Il diritto internazionale richiede la «proporzionalità» nella reazione a un attacco armato. Anche il Papa, tornando in aereo dal Belgio, ha appena ribadito che «in guerra la difesa deve essere proporzionata all’attacco». Il che vuol dire che difendersi è legittimo, a condizione che. Ma che vuol dire «proporzionata»? Nessuna mente umana può azzardarsi a calcolare tale proporzione in termini meramente numerici. Quante vittime palestinesi sarebbero state «proporzionate» all’attacco di Hamas del 7 ottobre? È una domanda cui bisogna rifiutarsi di rispondere (io almeno mi rifiuto), non foss’altro per senso di umanità: non c’è mai un numero giusto di vittime civili. Per uscire dal dilemma morale, dunque, al principio di proporzionalità bisogna far precedere il principio di responsabilità, peraltro «comunemente riconosciuto nello ius ad bellum»; e cioè chiedersi, come ci ha suggerito il filosofo Michael Walzer: «Chi ha cominciato questa guerra? Chi ha messo i civili a rischio?». Per rifiutare il criterio del «dente per dente», l’equazione disumana del dolore subìto con quello arrecato, l’unico possibile raffronto è tra la situazione esistente prima della reazione militare e il vantaggio che da essa deriva in termini di eliminazione o mitigazione del rischio per i civili.
Da questo punto di vista gli «omicidi mirati» dei capi di Hezbollah rientrano pienamente nel parametro. Dal giorno dopo il 7 ottobre l’esercito del «partito di Dio» sciita ha sparato ottomila razzi contro Israele, costretto all’evacuazione settantamila cittadini israeliani (molti di loro arabi) dal nord di Israele, violato la risoluzione delle Nazioni Unite che gli proibisce di schierarsi a sud del fiume Litani, a guardia del quale da quasi vent’anni opera peraltro un contingente militare italiano.
Se così stanno le cose, ci si deve allora chiedere: perché Israele non ha fatto lo stesso a Gaza? Perché in quella terra martoriata ha invece proceduto con una guerra casa per casa, senza quartiere, facendo terra bruciata?
Se si esclude un’ansia di vendetta, che pure ha giocato un suo ruolo nell’opinione pubblica israeliana ma che da sola non può giustificare dodici mesi di carneficina, le risposte razionali sono due. La prima: da 18 anni i servizi di sicurezza di Israele concentravano tutta l’attenzione su Hezbollah. Lo infiltravano, lo spiavano, si preparavano a un attacco. L’intervento dei miliziani sciiti in Siria è stato attentamente studiato, rivelando molte cose su gerarchia e covi dell’organizzazione. Mentre invece, nell’era Netanyahu, Hamas è stata tollerata a Gaza, le è stato permesso di ricevere i copiosi finanziamenti del Qatar, nella convinzione che lungi dal rappresentare un pericolo reale fosse invece un pretesto perfetto per chiudere ogni discorso di pace con i palestinesi e lasciare così mano libera agli insediamenti dei coloni ebrei.
Ma c’è una seconda ragione, ed è più profonda: a Gaza si combatte sulla terra dei palestinesi e tra i palestinesi. Israele ha avuto più successo nel decimare in Libano la dirigenza di Hezbollah perché a Gaza è terribilmente più difficile separare la dirigenza di Hamas dal suo popolo.
Forse è questa la lezione del 7 ottobre, un anno dopo. Oggi Netanyahu sembra aver ribaltato le previsioni che lo vedevano inevitabilmente sconfitto alle prossime elezioni dopo quel fallimento della sicurezza. Oggi sembra vicino alla più grande vittoria per Israele dai tempi della guerra dei Sei Giorni. Ma per entrare nella storia del suo paese, come accadde ad altri due falchi della destra israeliana, Begin che fece la pace con l’Egitto e a Sharon che si ritirò da Gaza, anche lui deve passare per la cruna dell’ago di una speranza di pace con i palestinesi. Dubitiamo che lo faccia, soprattutto se Trump vincerà le elezioni americane. Ma se non lo farà, il popolo di Israele resterà condannato a difendersi.