20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

Ogni esito è ancora possibile, tuttavia un bilancio della fase politica successiva alle elezioni si può fare: c’è un vincitore, Giuseppe Conte, e uno sconfitto, Matteo Salvini


Mercoledì assisteremo a un singolare confronto in Parlamento sul cosiddetto Russiagate tra il capo del governo e il ministro dell’Interno. Dopodiché avremo ancora qualche giorno con fuochi d’artificio e poi si chiuderà del tutto l’ormai famosa finestra che avrebbe consentito la convocazione dei comizi elettorali entro il mese di settembre. Ma — detto che ancor oggi ogni esito è possibile — si può fare fin d’ora un bilancio della fase politica successiva alle elezioni europee: c’è un vincitore, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e uno sconfitto, il suo vice Matteo Salvini. Si può aggiungere che, dai primi di agosto, ovemai la legislatura subisse un infarto, la vita di questo Parlamento, con ogni probabilità, verrebbe salvata da una nuova maggioranza più larga, imperniata, ed è qui la sorpresa, sulla figura di colui che un tempo si autodefinì «avvocato del popolo». Conte con grande agilità ha preso le redini di un M5S in stato di confusione dopo lo shock elettorale («eravamo un acquario: io, Casaleggio, Di Battista; poi l’acquario è bollito e oggi siamo una zuppa di pesce», ha sentenziato Beppe Grillo dal palco di Pontenure in provincia di Piacenza).
Il presidente del Consiglio è stato capace di trascinare con sé il frastornato movimento ponendosi in sintonia con il tradizionale establishment italiano, quello europeo, l’intero mondo economico e il Quirinale. Ci è riuscito offrendo ai grillini una prospettiva di tenuta della legislatura che offrirebbe ai pentastellati la garanzia di restare a lungo in Parlamento e persino al governo. Conte si trova così nella situazione — pressoché inedita nella storia d’Italia — in cui è capo di un esecutivo che poggia su due maggioranze: la prima, più instabile, in compagnia dei soli leghisti; la seconda, di unità nazionale, con il Pd ma anche, probabilmente, Forza Italia. Partiti che, pur restando all’opposizione e votandogli contro, d’ora in poi concentreranno le loro energie esclusivamente al contrasto di Salvini.
Senza bisogno di ribaltoni, l’attuale presidente del Consiglio si ritrova in un Parlamento dove, leghisti a parte, praticamente non ha oppositori. Se le cose dovessero continuare in questo modo, verrà confermata la legge politica tutta italiana per cui chi vince nella competizione per il Parlamento di Bruxelles (Matteo Renzi nel 2014, Salvini lo scorso 26 maggio) si trova poi nelle condizioni di non poterne trarre profitto. Per un po’ il «vincitore delle europee» sarà confortato da sondaggi che continueranno a darlo in espansione, ma il combinato di maggioranza e opposizione si impegnerà ad imbrigliarlo, finché ad un certo punto misteriosamente le rilevazioni cambieranno di segno: da quel momento il vento soffierà in direzione ad egli avversa. E il risultato delle successive elezioni politiche risentirà di questa mutazione climatica presentandosi in modo assai difforme dai sondaggi iniziali.
Conte — che una frettolosa vulgata di fine maggio già descriveva come re in procinto di essere umiliato (prima) e detronizzato (poi) dal leader del carroccio — nei prossimi mesi potrà presentarsi al Paese e all’opinione pubblica internazionale come capo di un governo che per ben due volte ha evitato la procedura di infrazione e ora, grazie alla maggioranza di ricambio, è in grado di mantenere la barra dritta. Dovessero esserci inciampi, verrebbero messi per intero sul conto del ministro dell’Interno. Certo, non è detto che tale immagine sia adatta a far guadagnare voti ai Cinque Stelle. Ma questo non costituisce problema per il presidente del Consiglio anche perché (a meno che non sia stato colpito dal virus che ha infettato molti «tecnici» suoi predecessori) è improbabile che al termine della legislatura vada a cercare un seggio in Parlamento. Per lui il successo si misurerà nella capacità di portare a termine la missione assegnatagli all’atto di insediarsi a Palazzo Chigi, che era (ed è) quella di trovare un baricentro stabile in un Paese reso obiettivamente traballante dal risultato elettorale del 4 marzo 2018. La partita, Conte la gioca sul terreno della crescita della propria reputazione. Un po’ come fu per Mario Monti, quantomeno fino a tre quarti della sua esperienza governativa.
Evidentemente diverso è il caso di Salvini. Per il vicepresidente del Consiglio, dopo il tempo dell’euforia di fine maggio, sono stati solo dolori. Non aveva calcolato che l’esuberanza postelettorale della Lega avrebbe messo in difficoltà Di Maio, pesce non citato da Grillo ma ingrediente fondamentale della zuppa a cui il comico ha fatto riferimento. Immediatamente la questione dei migranti si è presentata a Salvini in termini più svantaggiosi rispetto a quelli dell’estate scorsa: segno che i suoi avversari e competitori avevano utilizzato i tempi recenti per potersi presentare più attrezzati a un’emergenza ormai abituale. Sicché il ministro dell’Interno è rimasto solo a contrastare la sapiente offensiva delle imbarcazioni Ong, sostenuta con maggior convinzione da Chiesa, magistratura e opinione pubblica internazionale. Cinque mesi fa il vicepresidente del Consiglio non ha inoltre considerato opportuno fermarsi a riflettere sulla pubblicazione (in un numero dell’Espresso) di sostanziali anticipazioni dell’imbarazzante colloquio di quattro mesi prima in un hotel moscovita, incontro in cui alcuni suoi sodali avevano pronunciato parole che per lui potrebbero rivelarsi alquanto compromettenti. E si è fatto trovare impreparato al momento della seconda ondata di rivelazioni (e se ne annuncia adesso una terza assai corposa). Ha inoltre superficialmente valutato in termini esclusivamente positivi la «stretta di mano» riservatagli il 17 giugno dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo. E, al momento della nomina dei vertici europei, ha compromesso ogni partita con la Ue lasciando a Conte — per di più in compagnia dei sovranisti ungheresi di Orbán e di quelli polacchi di Kaczynski — occasioni di cui avrebbe potuto approfittare lui stesso. Ha scelto infine — come Bettino Craxi nel 1991 e Renzi (dopo la sconfitta al referendum) a fine 2016 — di non «chiamare» elezioni anticipate, regalando a Conte lo spazio per mettersi a capo della doppia maggioranza di cui si è detto.
In tale contesto, Salvini ha lasciato filtrare la valutazione secondo cui ha evitato la crisi di governo perché convinto che Mattarella non solo non gli avrebbe «concesso» le elezioni anticipate ma avrebbe favorito un incontro tra Pd e M5S dal quale sarebbe nato un governo d’emergenza. Situazione simile a quella nella quale si trovò per ben due volte Silvio Berlusconi: la prima tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, quando dovette cedere lo scettro a Lamberto Dini; la seconda nel 2011 allorché fu costretto a farsi sostituire da Monti. La novità rispetto al passato sarebbe che stavolta alla guida del governo di salute pubblica resterebbe lo stesso Conte. E Salvini potrebbe trovarsi nelle condizioni di Berlusconi che, entrambe le volte, giudicò saggio votare la fiducia al destinatario della manovra politica compiuta a suo danno. L’unica possibilità che gli resterebbe per differenziarsi dal cavaliere del 1995 e del 2011 sarebbe quella di passare immediatamente all’opposizione, nella speranza di essere compensato dalle urne. Ma, prima di poter ottenere l’auspicato compenso, dovrebbe probabilmente affrontare un tragitto meno breve di quello ipotizzato al momento del cambio. Un sentiero lungo e pieno di insidie. Anche e forse soprattutto di natura extraparlamentare.

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