La rete e la sfida alla democrazia. Ormai da tempo i tycoon delle tecnologie digitali sono diventati più potenti degli Stati
A Capodanno del 2022, giocando a fare previsioni su Twitter (poi divenuta X), Dmitri Medvedev, un tempo presidente russo del dialogo con l’Occidente, ora falco putiniano, immaginò la secessione del Texas e della California dagli Stati Uniti con Elon Musk eletto presidente dell’Unione alla fine di una seconda guerra civile americana. L’imprenditore di SpaceX e Tesla, che aveva appena acquistato una rete sociale strategica per l’informazione, reagì con ironia e compiacimento. Da allora ha spostato sempre più il baricentro dei suoi interessi dall’industria alla politica.
Due anni dopo fa discutere il suo appoggio entusiastico a Donald Trump, l’uso del suo social network e della sua enorme ricchezza per sostenere il candidato repubblicano e denigrare i democratici, anche rilanciando fake news. Ma non si tratta solo della battaglia per le elezioni del 5 novembre: Musk diffonde tra i suoi quasi 200 milioni di follower visioni care alla destra radicale sul razzismo (oggi i perseguitati sono i bianchi), l’identità sessuale e l’immigrazione: il complotto della «grande sostituzione» per trasformare i bianchi in minoranza sottomessa, secondo lui è reale. E Biden ne è il regista.
Ma non si tratta solo di Stati Uniti, né solo di Musk: molti analisti avvertono da tempo che i tycoon delle tecnologie digitali sono diventati più potenti degli Stati, anche perché la loro influenza va oltre i confini nazionali e ci investe in vari modi: diffondono opinioni controverse o pure falsità coi loro megafoni e la capacità di manipolare gli algoritmi, ma c’è anche chi veicola messaggi, spesso criptati, di terroristi e criminali che incidono sulla nostra sicurezza.
Le cronache delle ultime settimane dovrebbero scuoterci: Musk ha fatto notizia non solo sostenendo che Kamala Harris è ideologicamente una marxista, ma anche parlando ripetutamente di guerra civile inevitabile in Europa a causa dell’invasione di immigrati dal Sud del mondo e alimentando la tensione durante i disordini in Gran Bretagna.
E anche quando ha diffuso informazioni sull’identità degli attentatori rivelatesi false, Musk ha rivendicato il diritto di pubblicare tutto: niente censura in nome di una libertà di parola senza limiti della quale si considera sommo sacerdote. Avanti, fino al punto di sfidare, quasi fosse un contropotere, il nuovo premier laburista Keir Starmer. O andando alla guerra con la Corte Suprema del Brasile che ora ha messo al bando X. Scontri anche con altri Paesi, dall’Australia all’India, che gli chiedono di moderare i contenuti immessi in rete: lui non molla e quando moltissimi inserzionisti abbandonano X non volendo trovare la loro pubblicità affiancata a messaggi infami, lui li denuncia accusandoli di congiurare contro di lui.
Ma Elon non è l’unico a giustificare i comportamenti più spregiudicati col suo ruolo di «assolutista anticensura». Il capo di Telegram, Pavel Durov, finito in carcere e poi ai domiciliari in Francia per il rifiuto di cooperare nella ricerca di criminali che hanno usato la sua rete per gestire traffici sessuali, di droga e di terrorismo, si presenta, lui pure, come un portabandiera della libertà. E all’inizio lo è stato: la sua rete ha protetto i dissidenti russi delle vendette del Cremlino. Ma poi,quando i criminali hanno scoperto la convenienza di comunicare in tutta segretezza sfruttando i sistemi di criptaggio end to end di Telegram, non ha fatto nulla per fermarli né li ha denunciati.
Durov, cittadino russo-francese, difende il suo rifiuto di collaborare usando come scudo il Primo Emendamento della Costituzione Usa (quello che garantisce una libertà di espressione senza limiti) oltre che la Carta dell’Onu. Altrettanto fa Chris Pavlovski capo della piattaforma di video sharing Rumble che ha respinto le richieste di vari Paesi – Francia, Nuova Zelanda, Australia, Gran Bretagna, Brasile – di eliminare dalla sua rete contenuti estremi come le immagini di un accoltellamento in un centro commerciale di Sydney.
Regolamentare fin qui è stato estremamente difficile soprattutto in America dove la lobby tecnologica è molto potente mentre la destra radicale si è impossessata della battaglia per una libertà assoluta usando in modo strumentale il vessillo del Primo emendamento. Ora, nell’inerzia del Congresso, per la prima volta qualcosa si muove in California (dove hanno sede i maggiori gruppi di big tech): il Parlamento dello Stato ha approvato a grande maggioranza la legge SB 1047 che introduce blandi vincoli per evitare che i nuovi modelli «di frontiera» di intelligenza artificiale abbiano effetti devastanti. Toccherà al governatore Gavin Newsom controfirmare o mettere il veto. Nonostante il vastissimo consenso per le regole in Parlamento e nei sondaggi, il via libera non è scontato: con poche eccezioni (tra le quali, curiosamente, Musk), i leader del settore, come OpenAI, vogliono bloccare la legge: temono che freni l’innovazione. La campagna, guidata dai venture capitalst Marc Andreessen e Ben Horowitz, ideologicamente contrari a ogni regola, anche la più blanda, fa proseliti non solo a destra: contro la legge anche Nancy Pelosi.
Escluso dalla corsa per la Casa Bianca, in queste settimane di settembre Newsom avrà un’altra occasione per fare la storia.