Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
È un momento di una gravità senza precedenti per la democrazia americana. Vigilia di una campagna elettorale che metterà alla prova la solidità delle istituzioni democratiche
Gli strateghi della sua campagna elettorale sono convinti che l’impeachment sia un vantaggio: polarizza ancora più l’elettorato, aumenta la determinazione e l’impegno dei sostenitori, fa crescere la raccolta di fondi per la rielezione del presidente e il reclutamento di volontari. E, stando ai sondaggi, non pare che quanto accaduto fin qui in Congresso abbia cambiato il giudizio degli americani sul loro leader. Mentre ora potrebbero essere i parlamentari democratici(una trentina) eletti in collegi che nel 2016 hanno votato per Trump a rischiare grosso pronunciandosi per la messa in stato d’accusa. Ma lo stato d’animo di un presidente che ormai conosciamo bene negli aspetti combattivi, ma anche narcisistici e umorali del suo temperamento, è diverso e per nulla univoco. Anche se sa che alla fine potrebbe ottenere un vantaggio elettorale, Trump è furioso: aveva l’ambizione di finire nei libri di scuola come un presidente più importante di Lincoln e Washington mentre ora sa che nel primo capoverso di tutte le sue biografie rimarrà impresso per l’eternità il processo al quale verrà sottoposto dal Senato a gennaio. Quasi certamente verrà assolto, ma il suo posto nella storia sarà a fianco di Andrew Jackson – il presidente che, dopo la Guerra Civile e la fine della schiavitù, rifiutò l’uguaglianza razziale e i diritti civili ai neri — di Richard Nixon e di Bill Clinton. Nella sua reazione rabbiosa gli accusatori democratici, fin qui bollati come cacciatori di streghe, diventano, così, golpisti.
È un momento di una gravità senza precedenti per la democrazia americana. Vigilia di una campagna elettorale che metterà alla prova la solidità delle istituzioni democratiche. Le previsioni sono ancora a favore del presidente tanto per quanto riguarda l’assoluzione dall’impeachment quanto per il voto di novembre: i sondaggi nazionali, in realtà, non lo premiano ma contano poco come lui stesso ha già dimostrato nel 2016, mentre i democratici sono ancora alla ricerca di un candidato forte. E, cosa ancor più importante, l’economia continua a crescere: i dati degli ultimi due mesi hanno fatto rientrare l’allarme recessione che era stato lanciato ad agosto. Ora anche gli economisti di sinistra danno per scontato che il Pil continuerà ad aumentare (magari del 2 per cento anziché del 3 annunciato dalla Casa Bianca) anche nel 2020 con un tasso di disoccupazione che rimarrà intorno all’attuale 3,5 per cento: il livello più basso degli ultimi 50 anni. E non ci sono casi di presidenti non rieletti nel Dopoguerra con tassi di disoccupazione inferiori al 7,4 per cento.
Ma non ci sono nemmeno precedenti di presidenti rieletti dopo l’impeachment: ci si muove, insomma, su un terreno mai esplorato prima. E’ la condizione nella quale viviamo da quando Trump ha imposto il suo populismo, una comunicazione politica nella quale suggestioni e parole d’ordine contano più della realtà dei fatti e ha cambiato il Dna del partito repubblicano. Un deterioramento del clima e dei rapporti politici al quale ci siamo progressivamente abituati, quasi senza accorgercene. Ce ne rendiamo conto all’improvviso quando, davanti alle sei pagine furiose della lettera di Trump alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, accusata di ogni nefandezza, dal colpo di stato alle offese arrecate alla famiglia del presidente, fa quasi tenerezza rileggere le cronache delle reazioni di Bill Clinton all’impeachment decretato contro di lui dal Congresso repubblicano esattamente 21 anni fa: «Spero che verrà trovato un modo rapido e corretto di risolvere la questione secondo il dettato costituzionale. Nel frattempo continuerò a lavorare per il popolo americano».
Benché ferito nell’orgoglio, il Trump che diffonde su Twitter fotomontaggi nei quali appare come un pugile (con cintura da campione del mondo) è convinto che continuando ad alzare il tono dello scontro terrà compatto il suo elettorato. Probabilmente è vero ma, come dicevamo, stiamo esplorando territori nuovi della politica e anche della comunicazione. Potrebbe essere vero per lui ma non per il suo partito che, dopo aver perso la maggioranza alla Camera nelle elezioni di mid term dello scorso anno, nel 2020 rischierà anche al Senato. La correttezza istituzionale può anche passare in secondo piano quando scegli di votare un presidente che per qualche motivo fai diventare il tuo simbolo di riscatto. Nella scelta del parlamentare del tuo collegio, però, contano altri fattori, a partire dalla credibilità personale. E qui i repubblicani che, mettendosi nella scia di Trump, hanno rinunciato a molti loro caposaldi ideologici – dal rigore nel contenere deficit e debito pubblico al free trade, alle alleanze internazionali, all’interventismo in politica estera – sono piuttosto vulnerabili.
Fin qui, davanti alle sortite «scorrette» di un presidente che ormai esterna decine di volte ogni giorno attaccando e prevedendo addirittura la morte della sua rete televisiva «di riferimento», la Fox, i parlamentari repubblicani se l’erano cavata distinguendo tra il Trump di governo che parla con atti come la riforma fiscale o il nuovo trattato commerciale con Messico e Canada e il Trump brutale e imprevedibile dei tweet che molti esponenti del Grand Old Party dicono di non leggere. Con la lettera dell’altra sera al Congresso, però, il presidente ha istituzionalizzato il linguaggio e la sostanza dei suoi tweet.