La rivoluzione tecnologica in corso oggi, che apre la strada all’Intelligenza Artificiale, è «naturalmente» adatta a sistemi autoritari, perché richiede di concentrare la risorsa-chiave del nostro tempo, i Big Data, cioè i nostri dati personali
Nel (sempre più ristretto) circolo dei sostenitori della vecchia liberal-democrazia ci si domanda: dobbiamo temere di più i Maga Men, i millecinquecento insorti che assaltarono il parlamento statunitense il 6 gennaio di quattro anni fa, scarcerati da Trump e condonati come fossero prigionieri politici? Oppure i Tecno Oligarchi, quella sfilza di capi azienda multimiliardari in giacca e cravatta allineati alla sua celebrazione, in un’esibizione di volontà di potenza senza precedenti? Dico la mia: mi fanno più paura i Ceo. Non temo il loro potere in sé, ma in me; anzi in noi, cittadini delle democrazie.
Certo, lo «Sciamano» portava le corna da vichingo e il trucco tribale sul viso, e appena libero ha annunciato che andava a comprarsi un’arma. Ma lui e i suoi compagni non sono altro che carne da cannone di una rivoluzione, sanculotti del Make America Great Again. Ora che quel movimento ha vinto nel più democratico dei modi, con l’elezione diretta e a grande maggioranza del loro leader, come sempre accade nella storia verranno messi da parte, o al guinzaglio. I rivoltosi tornano buoni quando si perde il potere, non mentre lo si esercita.
Invece «lorsignori», come chiamava i «padroni» Fortebraccio nei suoi corsivi sull’Unità, posseggono (faccio l’elenco in ordine alfabetico delle aziende in prima fila all’Inauguration Day): Amazon, Apple, Meta con Facebook, Instagram, Whatsapp, Messenger e Threads, OpenAI, Uber, TikTok e X.La vita di ognuno di noi sarebbe oggi inimmaginabile senza l’uso dei servizi di questi marchi, forse anche senza uno solo di loro. I nostri figli ne sono felici ostaggi e inconsapevole fonte di profitto, grazie alla loro profilazione a fini commerciali, carpita seguendoli e spiandoli ogni volta che si muovono sul Web.
Il problema non è dunque neanche tanto nella posizione oligopolistica dei Big Tech, che possono mettersi al servizio del potere politico di turno per trarne un vantaggio (Trump ha già regalato loro la cancellazione della Global Minimum Tax, l’obolo del 15% faticosamente concordato all’Ocse due anni fa per redistribuire almeno un minimo della ricchezza senza frontiere; e ha anche annunciato l’investimento di 500 miliardi di dollari in quattro anni nel business dell’Intelligenza Artificiale. Piovono denari e non sono bitcoin!
Tutto ciò non è una novità. Da quando esiste il capitalismo esiste il rischio dell’oligopolio e del monopolio, anche se il presidente della storia americana forse più simile a Donald Trump, il populista Theodore Roosevelt, agli inizi del ‘900 combatté una dura ed efficace battaglia contro i robber barons, i «baroni-ladroni», super-ricchi che sfruttavano gli eccessi della Gilded Age, un’altra «età dell’oro» degli Stati Uniti.
Il vero pericolo sta, piuttosto, nella materia che gestiscono. A differenza dei banchieri e degli imprenditori di un secolo fa, i tycoon dei nostri giorni ci vendono infatti beni molto più piacevoli, innocui e apparentemente a basso costo: libertà, relazioni, ubiquità, divertimento. Siamo perciò molto più anestetizzati che in passato per poterne valutare appieno il potenziale pericolo.
Si dice spesso che la tecnologia è neutra, dipende da come la si usa. Non è vero. Agli albori della terza rivoluzione industriale, quando negli anni ’70 del Novecento Bill Gates e Paul Allen fondarono Microsoft, e Steve Jobs e Steve Wozniak resero l’informatica accessibile a tutti con Apple II, la tecnologia dei personal computer e di Internet si rivelò intimamente «libertaria» e «democratica», perché produsse un formidabile incremento nella diffusione delle informazioni, che è ciò di cui ha più bisogno l’economia di mercato. Fu infatti il fattore decisivo per il crollo del regime sovietico, che non resse la sfida. E in Occidente gonfiò le vele della «nuova sinistra» di Clinton e Blair: la new economy, mettendo al centro beni immateriali, apriva nuove opportunità per tutti e abbatteva i vecchi oligopoli.
Ma la rivoluzione tecnologica in corso oggi, che apre la strada all’Intelligenza Artificiale, è invece «naturalmente» adatta a sistemi autoritari, perché consente (e richiede) di concentrare la risorsa-chiave del nostro tempo, i Big Data, cioè i dati personali che ciascuno di noi regala a quelle aziende di cui sopra usando la Rete. Quattro miliardi di persone possiedono uno smart-phone e inviano informazioni nel cloud, che è gestito da poche migliaia di persone. La tecnologia del Duemila è dunque sempre «libertaria», ma non più «democratica»: può perciò paradossalmente usare il free speech contro la società aperta. E infatti stavolta la maggiore potenza autoritaria del mondo, la Cina, vi primeggia e se ne avvantaggia: perché favorisce il controllo sociale, l’isolamento del dissenso, la profilazione dei comportamenti individuali.
I vantaggi di questa straordinaria svolta antropologica forse superano ancora i rischi. Ma è chiaro che la liberal-democrazia così come la conoscevamo farà fatica a sopravviverle. Compito dei suoi sostenitori (speriamo anche futuri) è saperlo. E pretendere che al più presto il potere democratico si metta in grado di controllare e regolare nell’interesse pubblico l’accesso alla risorsa più preziosa del nostro tempo, i Big Data. Almeno per ora, la grande democrazia americana, la più antica e la più forte, non si sta avviando su questa strada.