22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ferruccio de Bortoli

L’articolo 49 della Costituzione non è mai stato attuato. Per la formazione del governo ci affidiamo ai leader, soprattutto quelli che pensano di aver vinto il 4 marzo

Due mesi di fiera delle vanità o di mercato delle illusioni. Colpisce la sottovalutazione dei rischi connessi a un avvitarsi della crisi. La convinzione di vivere in una bolla separata dal resto del mondo. In un tempo sospeso. Questo passaggio inedito e drammatico della storia della Repubblica ci consente di riflettere su un dettato apparentemente secondario della nostra Costituzione. Secondo l’articolo 49 «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Può sembrare un dettaglio con tutti i problemi che abbiamo. Ma non lo è. Una norma, quella dell’articolo 49, che non andava cambiata, come quelle sottoposte a referendum il 4 dicembre del 2016, ma semplicemente applicata. Si è tentato di farlo, per la verità, nella passata legislatura con il disegno di legge Richetti, approvato alla Camera ma poi arenatosi al Senato. Accantonato senza tanti dispiaceri, vittima di altre priorità. Il testo, che aveva come primo firmatario l’esponente pd, era il risultato dell’assemblaggio di varie proposte. Ottenne un largo consenso, astenuti Forza Italia e Cinque Stelle. Non mancavano dubbi e incertezze. E soprattutto qualche malcelata voglia di metterlo da parte per non avere troppi problemi di gestione in campagna elettorale. La proposta Richetti prevedeva una serie di disposizioni in fatto di trasparenza nei finanziamenti, funzionamento degli organi interni, selezione dei candidati. Insomma, la realizzazione, pur con tutte le imperfezioni, di quel «metodo democratico» nella vita dei partiti di cui parla la Costituzione.

La formulazione dell’articolo 49 fu il frutto in particolare della proposta alla Costituente di Lelio Basso, il quale avrebbe voluto fare di più sul piano della personalità giuridica e delle attribuzioni costituzionali dei partiti. Si trattava di garantire un difficile equilibrio fra libertà d’associazione, rispetto delle idee personali, diritti delle minoranze. Il timore di un occhio indiscreto o di una invasione di poteri dello Stato, della magistratura per esempio, produsse una formulazione spuria, reticente. L’opposizione comunista risultò decisiva. E l’articolo 49 rimase sospeso, indefinito, come il fondamentale concetto di «metodo democratico». Un destino analogo ha riguardato l’articolo 39 che stabilisce la registrazione degli statuti «a base democratica» dei sindacati. Nella lunga stagione della partitocrazia e dell’occupazione delle istituzioni, il dettato costituzionale apparve solo come il frutto illuminato ma appassito dei costituenti. Un soprammobile. Ma non lo è affatto nell’era della leadership personale o presunta tale, del rapporto diretto tra capo e popolo, soprattutto nella sua dimensione impalpabile sulla Rete. «È assai curioso che nell’epoca dell’iper regolazione – dice il costituzionalista Alfonso Celotto, docente all’Università Roma Tre – il processo attraverso il quale si formano le decisioni cruciali per un Paese sfugga a qualsiasi regola procedurale precostituita. Come se il voto, da rispettare, fosse una sostanziale delega in bianco personale al leader».

Oggi ci domandiamo, nel pieno di una crisi post elettorale, se una buona attuazione dell’articolo 49 non ci avrebbe aiutato. Non solo nel garantire una maggiore trasparenza dei partiti ma anche nello svelenire e incanalare gli animi nelle lotte di potere. Nel rendere più consapevoli, di conseguenza, le scelte dei cittadini. Ma, soprattutto, nel far maturare, nelle procedure interne ai partiti di sicuro «metodo democratico», scelte più meditate, dibattute, non legate soltanto alla personalità dei capi, quando non ai loro caratteri personali. Ha scritto Sabino Cassese ne La democrazia e i suoi limiti (Mondadori) che l’indebolimento dei corpi politici «produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente». Oggi il primo partito è di fatto controllato da una società a responsabilità limitata. Impone ai suoi parlamentari un contratto (valido?) che fa a pugni con la disposizione dell’articolo 67 della Costituzione contrario al vincolo di mandato. Non si può dire che la piattaforma Rousseau sia l’applicazione digitale di quel «metodo democratico» di cui parla la Costituzione. E nemmeno che le vicende del Pd siano l’espressione di una moderna governance della politica. Con la finzione di un segretario dimissionario nella precarietà dei suoi organi statutari. Relativamente oscure sono anche le fasi di formazione delle decisioni nella galassia del centrodestra. Berlusconi inventò il partito personale, oggi un po’ appesantito dagli anni. Non è stata un’eccezione. Ha fatto scuola.

In questo quadro, i leader dei partiti – soprattutto quelli che pensano di aver vinto il 4 marzo – sono chiamati a fare scelte di straordinaria importanza per il Paese. In assenza di procedure, regole, discussioni negli organi statutari, pesi e contrappesi – quelli che ogni giorno presiedono alle scelte assai meno importanti di società e istituzioni – ci affidiamo al buon senso dei protagonisti, sperando che gli umori, i rancori e i calcoli di parte non prevalgano su una serena valutazione del bene comune e dell’interesse nazionale.

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