Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Il corollario della scelta di entrare nella maggioranza di Mario Draghi è scomodo ma inevitabile, per le forze politiche: non è più il momento di essere partiti di lotta e di governo. La lezione che arriva dalle prime ore di collaborazione conflittuale dovrebbe suggerire a tutti qualche riflessione. E la prima è che riprodurre
nella coalizione lo scontro consumatosi in precedenza su fronti contrapposti o comuni dà una visibilità e un protagonismo da cortocircuito. Non produce consensi ma confusione degna delle convulsioni del governo appena caduto.
Complice l’improvvisazione dell’esecutivo, la confusione si è riprodotta con la polemica sulla chiusura degli impianti da sci. Ma il canovaccio si può replicare quotidianamente, all’infinito; e dunque è meglio metterlo da parte subito. In questa ottica, è positivo l’incontro dell’altro ieri tra i «due nemici» Nicola Zingaretti, segretario del Pd, e Matteo Salvini, capo della Lega. Prendere atto che si è alleati e bisogna siglare una tregua in nome dell’interesse nazionale getta un seme di responsabilità da coltivare reciprocamente.
Lo stesso seme si spera che venga piantato dai grillini. Si tratta di chiarire i rapporti nel M5S e di smaltire le nostalgie per il precedente governo, alimentate strumentalmente con uno psicodramma che esalta i narcisismi più dei risultati reali. In qualche misura, tutti debbono fare i conti con le proprie contraddizioni; con quanto hanno detto sugli avversari prima di essere costretti a prendere atto di non avere alternative ad allearsi anche con loro. Amalgamare formazioni agli antipodi implica la consapevolezza di una fase totalmente nuova.
È vero, non si presenta come un apprendistato semplice. Rinunciare alle posizioni di rendita significa rielaborare le proprie strategie, adattarle a uno schema diverso; in una parola: rischiare. Quando Salvini assicura il sostegno a Draghi, e poi si lascia scappare una battuta maldestra contro l’euro «irreversibile», fotografa la difficoltà di rinunciare agli slogan di ieri; forse anche per coprirsi dalla concorrenza di Giorgia Meloni fuori dal governo. Sbavature gravi anche se comprensibili, nella ridefinizione di un’identità.
L’asse nascente tra M5s, Pd e Leu, d’altronde, conferma la difficoltà di emanciparsi dalla logica di una coalizione politica all’interno di quella governativa. Oggi, dunque, al Senato il governo parte cercando un baricentro che Draghi non può né vuole garantire in solitudine. Collaborare col morso della pandemia e della crisi economica e sociale nelle quali l’Italia è immersa col resto dell’Occidente è una sfida dai contorni ancora da definire. Per questo, pensare di utilizzare una fase così cruciale e incerta per ottenere vantaggi elettorali, per coltivare l’arte dello smarcamento o, peggio, del sabotaggio stando nei ministeri, sarebbe suicida.
Apparirebbe irresponsabile a un’opinione pubblica che si aspetta competenza, condivisione e capacità di tradurle in atti e leggi efficaci e incisivi: esattamente quanto è mancato negli ultimi mesi del governo precedente. È probabile che occorrerà un rodaggio anche per trasmettere il senso di un impegno corale. L’importante è che la voglia di tregua istituzionale sia convinta e palpabile. Il governo precedente è caduto accreditando un «tutto va bene» di cartapesta, che ha fatto perdere molto tempo. Sarebbe imperdonabile, adesso, costruire un fondale di litigiosità quando si è obbligati a un percorso comune. La prima discontinuità sulla quale impegnarsi è questa.