22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Tutti si rendono conto che senza una riforma elettorale i difetti emersi in questi due mesi di trattative si riproporranno e il muro contro muro si accentuerà. Eppure la tentazione e il rischio sono forti


Il sospetto è che l’impossibilità di trovare una soluzione dopo il voto del 4 marzo non sia figlia solo di un sistema sbagliato, ma della bolla autoreferenziale nella quale i protagonisti galleggiano. Dopo due mesi, niente e nessuno è riuscito a perforarla; e a indurre i partiti, quelli che hanno avuto più voti e quanti li hanno persi, a guardare un po’ oltre il loro naso. L’arroganza è stata proporzionale all’impotenza. E anche adesso che si profila il rischio di una fine traumatica della legislatura, l’atteggiamento rimane quello impermalito di chi non riuscirebbe a imporsi soprattutto per la cattiva volontà altrui.
Bisogna augurarsi che questo approccio segnato da un ignaro egoismo politico non sia anche il riflesso di una società italiana frammentata in tribù ormai da tempo incapaci di dialogare; e convinte che il proprio tornaconto debba assurgere a interesse generale. Forse, più che di mancanza di generosità, si tratta proprio dell’incapacità di percepirsi come minoranze; e dunque di essere disposti a riconoscere e accettare le ragioni altrui. A ben vedere, è il cascame di un quarto di secolo di Seconda Repubblica nella quale nessuno ha legittimato fino in fondo gli avversari: tranne rare, effimere eccezioni.
Forse perché il sistema maggioritario è stato declinato, dentro i partiti, tra le forze politiche e nelle istituzioni, come un diritto a «prendersi tutto», trattando le minoranze alla stregua di moleste disturbatrici. Il problema è che la prepotenza sopravvive nonostante il sistema elettorale sia una caricatura di maggioritario. E si scontra con un Parlamento senza vincitori che si comportano come se lo fossero: vedi centrodestra e Movimento 5 Stelle. Quanto al Pd, si ritrae con maldestro tatticismo all’opposizione, benché non si sappia ancora né quale governo ci sarà; né se sarà possibile formarne uno che non sia elettorale.
Ma il riflesso è lo stesso: una reazione istintiva a rifiutare la realtà dei numeri parlamentari, nel momento in cui costringono a fare i conti con la propria parzialità. Si può dare la colpa all’inesperienza, alla scarsa conoscenza dei meccanismi della democrazia parlamentare; oppure alla volontà di svuotarli e metterli in mora nel momento in cui contraddicono ambizioni personali e di nomenklatura. L’assenza di creatività rispetto a soluzioni subordinate, tuttavia, non appartiene alla categoria della coerenza o del rigore. Riflette soprattutto una classe dirigente che oscilla tra manicheismo e opportunismo; che sa opporre ai tentativi senza esito del Quirinale solo i propri imperativi.
L’epilogo di uno stallo senza vie d’uscita potrebbe essere quello di nuove urne. Tutti si rendono conto che senza una riforma elettorale i difetti emersi in questi due mesi di trattative si riproporranno, aggravati; e il muro contro muro si accentuerà, senza offrire soluzioni stabili. Eppure la tentazione e il rischio sono forti: almeno quanto il calcolo di affrontare una nuova campagna elettorale additando gli avversari come inaffidabili, disonesti, incapaci. Premesse di future trattative inconcludenti; e di una delegittimazione reciproca che nessuno sembra in grado anche solo di arginare.
D’altronde, dice molto il fatto che, per giustificare davanti ai rispettivi elettorati non un accordo di governo ma anche un semplice dialogo, si debba ricorrere allo stratagemma del «contratto»; e che, di fronte all’ipotesi di sedersi allo stesso tavolo, un partito arrivi sull’orlo della scissione. È come se si volesse evitare una «contaminazione» che metterebbe a rischio l’identità, oltre ai consensi, di una formazione politica. Ma senza volerlo, queste rigidità lasciano indovinare la debolezza e il velleitarismo delle strategie che sono state proposte; uniti, però, a una furbizia che sconfina nella spregiudicatezza.
È sconsolante vedere come le aperture verso potenziali «contraenti» possano trasformarsi in poche ore in durezza manichea contro avversari che ridiventano nemici; e come il rispetto verso le istituzioni venga modulato a seconda dell’aspettativa premiata o delusa. Grande disponibilità, se assecondano le ambizioni dell’una o dell’altra minoranza; ostilità e larvate minacce, se le deludono. Senza ripartire da una condivisione dei fondamentali della democrazia, però, l’Italia continuerà a chiudersi in villaggi non comunicanti, condannandosi a una realtà virtuale. Ma alla fine una soluzione andrà trovata: o guidata, o subìta dalla politica.

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