Fonte: Corriere della Sera
di Venanzio Pastiglione
Renzi, ma anche Calenda e Toti: un «one man show» dopo l’altro. Come accade in molti Paesi dove si continua a votare e non cambia mai nulla
Sarà un segno dei tempi. Un altro. Sarà che l’epoca richiede più volti che idee, più leader da osannare e dimenticare che progetti su cui riflettere. Sarà che i «mezzi» diventano la sostanza stessa e non sono mai specchi neutri: si era capito negli anni Cinquanta con la televisione e figuriamoci adesso con il web, forse la più grande rivoluzione della storia. La velocità come valore assoluto, una sorta di sogno (o incubo) futurista. Sarà per questi e cento altri motivi, ma gli ultimi giorni hanno riaperto la stagione dei partiti personali. I tre poli di un periodo che sembra lontano (l’anno scorso) stanno svanendo. One man show, con il contorno dei fedelissimi. Calenda ha lasciato il Pd e prepara il suo movimento perché il Pd si è alleato con i Cinque Stelle. Renzi lancia Italia viva, anche se lo stesso Pd ha abbracciato gli stessi Cinque Stelle, come più o meno aveva chiesto lui. Toti ha mollato Forza Italia per avvicinarsi a Salvini e andare subito alle urne: solo che non si vota. Troppo rapido. Un gruppo di berlusconiani guarda già a Renzi, per adesso a cena, forse domani a colazione. La senatrice Donatella Conzatti, ieri, è stata la prima a fare il grande passo «per arginare i sovranisti», che passeranno la notte svegli. Giuseppe Conte, benedetto dagli indici di gradimento, ha una compagnia dove gli attori aumentano e il copione diventa più complicato: bisogna aggiungere un po’ di parti in commedia. Con la cassa quasi vuota e il pubblico che rumoreggia.
Il premier sempre più ago della bilancia, pochi su cui contare veramente: quasi un movimento personale, anche per lui. Adesso, a Palazzo Chigi. E, pare, soprattutto in futuro. L’alleanza Pd-M5S si avvia a diventare un pentapartito, come da profezia (interessata) di Salvini. Quando Nicola Zingaretti dice al Corriere che l’intesa con i Cinque Stelle deve diventare «un processo politico di confronto, di dialogo e di avvicinamento», prova ad andare dritto al punto: un accordo vero «per» qualcosa, perché la diga anti-destra è un riflesso difensivo, non un programma di governo. E, senza un orizzonte e un senso di marcia, ogni incidente è subito un dramma: ieri in Aula gli arresti negati del forzista Diego Sozzani, un altro giorno saranno la Tav, le tasse, le autostrade.
Il partito personale è anche un anticipo di proporzionale puro. Tutti divisi, poi si vede in Parlamento. Non c’è ancora la riforma, ci sono già le conseguenze. Il maggioritario vive nelle regioni e soprattutto nelle città, dove il doppio turno va a consacrare un sindaco che è riconosciuto da tutti e quasi sempre conclude il mandato. Ma a livello nazionale se ne è perso il ricordo. Tocca ai partiti à la carte, per ogni gusto un simbolo. Tocca ai leader o auto-proclamati leader. Ma per fare cosa? Con quali obiettivi e programmi? E quali idee, se il termine non è troppo forte? Se le espressioni «riferimenti culturali», «insediamento sociale», «identità politica» sono diventate anticaglia del Novecento, va bene rivedere il linguaggio. Certo e volentieri. Ma il tema resta. Uguale. Io ti do i voti: ma tu che fai? Cosa cambi e cosa conservi? Chi vuoi aiutare e perché? Con quali soldi, scusate la volgarità? La leadership è sacrosanta e muove il mondo, però conta anche la risposta alle domande. I congressi di lacrime e tormenti per correggere il nome di un partito avevano un passo kafkiano. Ma forse l’età dei personalismi cade nell’eccesso opposto. Un tweet per nascere, un mojito per farsi del male, un breve video su Facebook per spiegare una svolta politica.
E non succede solo in Italia. Il nostro Massimo Gaggi, martedì, ci ha raccontato perché Trump si è mangiato i repubblicani e sta ossessionando i democratici. Non c’è un partito di The Donald: c’è solo lui. La Spagna pensava di aver trovato un trascinatore, il socialista Pedro Sánchez: il risultato è che si voterà per la quarta volta in quattro anni. Israele, da sempre modello politico per il mondo, è un Paese che gira attorno a Netanyahu: non si capisce più chi vuole cosa, ogni elezione è un referendum su di lui, ma Bibi non perde e non vince. Né accenna a ritirarsi. I presunti leader britannici, da David Cameron a Boris Johnson, hanno giocato partite narcisistiche e autoreferenziali: il Regno Unito è bloccato, avanti il prossimo. Come se una fetta di Occidente avesse perso la capacità di decidere chi governa e con quali obiettivi. Il voto permanente: per restare fermi. Il declino delle famiglie politiche ha portato al più facile degli slogan, «non siamo né di destra né di sinistra», e al più grande vuoto di contenuti e di prospettive. Anche di consapevolezza. Si fa la Brexit senza sapere come funzionerà. Si fa cadere il governo senza pensare che esiste il Parlamento.
La crisi della democrazia liberale non è ineluttabile. E la controversa ricetta di Davide Casaleggio che il Corriere ha pubblicato due giorni fa («Il rappresentato dovrebbe decidere sempre…») può apparire suggestiva, ma aggira ancora una volta il tema della competenza e della responsabilità. Delle istituzioni. Dell’informazione. Dei poteri in equilibrio. Non sono dettagli. I nuovi partiti personali lanciano l’uomo solo al comando: lui saprà dire e fare, fidatevi e vedrete. Casaleggio si inchina al popolo sovrano che in ogni istante potrà dire la sua con infinita saggezza. Tra i due estremi c’è un mare, se solo qualcuno sapesse navigare.