21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

L’Europa a «velocità diverse» perderà credibilità se nulla sarà concordato, almeno tra i Paesi del primo gruppo, per regolare l’emergenza dei flussi


Siamo arrabbiati con la Francia e la Spagna che rifiutano di darci una mano aprendo i loro porti ai migranti, siamo arrabbiati con l’Austria che per un pomeriggio adotta un linguaggio inutilmente bellicoso, il premier Gentiloni non nasconde la sua delusione al termine del G20 di Amburgo, ma proprio ora che siamo pienamente consapevoli delle nostre ragioni, proprio ora che constatiamo di portare quasi da soli il pesante fardello delle migrazioni mediterranee, diventa opportuna una valutazione pragmatica della partita epocale che ci coinvolge. Non è certo un mistero che nelle nostre vulnerabili democrazie le immigrazioni incontrollate producano, per via elettorale o pre-elettorale, un effetto destabilizzante per nulla estraneo al malessere chiamato populismo. Ebbene, siamo sicuri che Macron avrebbe dovuto aprire Marsiglia anche a rischio di resuscitare politicamente quella Le Pen che è stata duramente sconfitta nelle urne francesi? Abbiamo pensato a cosa accadrebbe dalle parti di Ventimiglia se la Le Pen avesse vinto?
E quanto al Brennero, come non vedere che l’evocazione elettoralistica dei blindati vuole (maldestramente) contribuire ad evitare che in ottobre i post-nazisti vincano le elezioni? S’intende che l’Italia ha fatto bene a insistere, a protestare, a chiarire. Non è questo il tempo delle rinunce, o dei silenzi. Ma contemporaneamente dobbiamo ricordare, magari sottovoce, che l’Unione europea non è una federazione bensì una unione di Stati nazionali. Che la difesa degli interessi nazionali resta lecita, in particolare nei settori, come quello migratorio, dove non esiste una politica comune e si procede a colpi di proposte della Commissione o di decisioni dei singoli governi. Dobbiamo davvero stupirci, stando così le cose, delle risposte di Parigi, di Madrid, e poi anche di Berlino e di Bruxelles?
La verità è piuttosto che siamo al cospetto di una rivendicazione «sovranista» che ha impedito sin qui la nascita di una politica migratoria comune, e che nel vuoto collettivo ad aggravare l’omissione hanno provveduto quegli accordi di Dublino che non sono più in grado, ammesso che lo siano mai stati, di affrontare la realtà geopolitica e demografica nella quale siamo immersi. Oggi il più miope dei ritardi prende l’Europa per la gola, e la costringe a risolvere una scomoda equazione: cosa deve prevalere nella Ue, il valore fondante di una solidarietà non soltanto parolaia, oppure il diritto, anch’esso di fatto riconosciuto, alla tutela dei propri interessi nazionali?
Nel breve, la risposta la conosciamo già. Le elezioni democratiche mai troppo lontane (per fortuna) consigliano a chi può di proteggere le sue frontiere. L’Italia non può, perché ha davanti un mare che dopo la chiusura della rotta balcanica è diventato enormemente più trafficato (e più tragicamente assassino) di quello che bagna la Grecia. Ma se gli studi dell’Onu che annunciano il raddoppio della popolazione africana entro il 2050 fanno venire i brividi all’Italia, l’Europa sarebbe miope e suicida a non fremere anch’essa. Non potrà esistere, quel «rilancio europeo» di cui tanto si parla in chiave franco-tedesca, senza l’avvio di una politica europea delle migrazioni che serva tra l’altro a superare Dublino. Perderà credibilità, l’Europa annunciata delle «velocità diverse», se si continuerà meritoriamente a parlare di difesa comune, di sicurezza comune, ma poi nulla sarà concordato, almeno tra i Paesi del primo gruppo, in tema di migrazioni. Non sfuggirà a processi di disgregazione che si pensava di aver superato nelle urne del 2017 una Europa che dovesse rimanere, come è oggi, spezzata in tre dal punto di vista migratorio: il Centro-nord ben protetto dall’interruzione della rotta balcanica e dall’accordo con la Turchia, l’Est arroccato nel suo rifiuto di accettare anche le modeste «quote» che Bruxelles aveva provato a stabilire, il Sud italo-greco, ma soprattutto italiano, aperto dalla geografia ai flussi mediterranei.
Non aspettiamoci novità importanti prima delle elezioni tedesche di settembre. Ma subito dopo l’Europa oggi reticente dovrà prendere atto di una emergenza che la riguarda tutta e che minaccia di travolgere le sue fondamenta forse più di quanto avrebbero fatto i temuti populisti. Le ricette miracolose, più che mai in questo caso, non esistono. Ma i passi da compiere non per arrestare i flussi migratori, obbiettivo del tutto irrealistico, bensì per ridurli e governarli, sono ormai sul tavolo. Serve un insieme di regole per le navi delle Ong, che l’Italia ha meritoriamente imposto e sta ora elaborando. Servono aiuti europei, ma anche procedure giudiziarie italiane più veloci, per i rimpatri volontari o coatti dei «migranti economici». Servono molti soldi e molte sanzioni per convincere i Paesi di origine a riaccettarli, ma sarebbe ancor più efficace riuscire a finanziare e a tutelare dal punto di vista umanitario una rete di hotspot in territorio africano. Servono sforzi e investimenti ulteriori nel Sahel (e una presenza militare europea che potrebbe nascere da quella francese già in atto) per sorvegliare e possibilmente chiudere le rotte migratorie che entrano nella Libia da Sud per poi raggiungere la costa mediterranea. E beninteso, serve la volontà politica per buttare Dublino alle ortiche.
Giusto è anche sostenere la Guardia costiera libica, vegliando però alle sue mele marce in contatto con le milizie che lucrano sui traffici di essere umani. E altrettanta prudenza andrà esercitata su ogni tipo di investimento non protetto in Libia, almeno fino a quando continuerà una guerra civile strisciante che ha sin qui reso vano ogni tentativo (non sempre ben calibrato) di pacificazione. Una siffatta politica europea non basterebbe, rappresenterebbe soltanto un primo passo tali sono le dimensioni della sfida da raccogliere. Ma abbandonare l’Italia, tra molti solidali sorrisi, sarebbe invece una corsa verso il baratro. Per tutti.

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