19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

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di Federico Fubini e Wolfgang Münchau

Il Regno Unito è riuscito fin qui a ridare fiato all’economia dopo il referendum di giugno solo esportando deflazione in Europa attraverso il crollo della sterlina. L’America di Trump potrebbe avere un impatto simile, se conferma l’impegno del presidente eletto a erodere il libero scambio con l’arma del protezionismo

Un elemento spicca nel rumore di fondo intorno ai due grandi eventi politici di quest’anno. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, sembra che la Brexit e l’elezione di Donald Trump abbiano improvvisamente dissolto la minaccia economica più grave di questi anni. Nei due casi, il trionfo del populismo ha improvvisamente ucciso le aspettative di deflazione o di inflazione pericolosamente bassa.

Molti esperti avevano previsto recessioni e catastrofi finanziarie se le forze anti-sistema avessero vinto ma, almeno nell’immediato, si sono sbagliati ancora una volta. Sui mercati finanziari non si è diffuso il caos. L’economia dei Paesi coinvolti non dà segni di rallentamento. Le Borse di Londra e di New York sono salite e la curva dei rendimenti è tornata, se non di nuovo grande, perlomeno normale. I tassi d’interesse a breve termine restano molto bassi, ma ora sulle scadenze più lunghe crescono gradualmente, perché gli investitori per il futuro prevedono un’inflazione meno gracile e magari una ripresa sostenuta. Le banche sono di nuovo in grado di guadagnare nel modo più tradizionale: prendendo denaro in prestito a breve, prestandolo a più lungo termine e incassando la differenza. Non sorprende che gli indici azionari dei titoli finanziari negli Stati Uniti e in Gran Bretagna abbiano compiuto un balzo, facendo molto meglio dell’analogo indice dell’area euro.

Dunque i populisti ce l’hanno fatta. Hanno spezzato l’incantesimo della deflazione. L’impresa sfuggita a celebrati banchieri centrali e ai leader più potenti del G7, sta riuscendo senza sforzo a quei ballisti sfacciati. I banchieri centrali avevano creato migliaia di miliardi di dollari, sterline e euro, i governi avevano tentato complicate riforme «strutturali», tutto apparentemente con scarsi risultati. Poi arrivano i populisti e centrano l’obiettivo quasi senza fare nulla, se non trovarsi in testa la sera in cui si aprono le urne. E benché la storia non si ripeta mai, è difficile non avvertire assonanze con gli anni 20 e 30.

Allora come oggi uno choc finanziario aveva colpito i Paesi occidentali; all’epoca, furono il crash di Wall Street dal 1929, quindi i fallimenti del Kreditanstalt in Austria e di Danat Bank in Germania nel 1932. Allora come oggi, ne è seguita molta disoccupazione e, da parte delle autorità, reazioni di panico volte a liquidare le attività in crisi (Stati Uniti, 1930-1932) o a sopprimere i deficit di bilancio (Germania, stessi anni). Oggi la chiameremmo «austerità». A Berlino anche il centro-sinistra vi fu coinvolto; controvoglia, i socialdemocratici sostennero le misure deflattive del primo ministro centrista Heinrich Brüning, temendo che negargli l’appoggio avrebbe accelerato l’ascesa di Adolf Hitler. Accadde il contrario: la grande coalizione non fece niente per superare la crisi economica e spianò la strada al peggiore populismo.

Curiosamente, molti tedeschi hanno della loro storia una percezione diversa che ancora oggi incide sulle loro preferenze: credono che sia stata l’iperinflazione dei primi anni 20 a distruggere la Repubblica di Weimar, mentre in realtà il «Partito nazional-socialista del lavoro» di Hitler conquistò molto più consenso con l’austerità, la deflazione e la disoccupazione dei primi anni 30. Eppure, allora come oggi, alle forze anti-sistema il trucco riuscì. Spezzarono le reni alla depressione con un mix di politiche che oggi non suonerebbero inaudite. Hitler si diede subito a re-inflazionare l’economia attraverso grandi programmi di lavori pubblici finanziati in deficit, con il protezionismo e, dal ’35, con l’aumento delle spese militari. I disoccupati scesero dai sei milioni del gennaio del ’33 a 2,4 milioni di diciotto mesi più tardi.

Quanto all’Italia, il vecchio sistema politico crollò prima della Grande depressione, ma a quel punto le condizioni economiche erano simili a quella della tarda Repubblica di Weimar. Fra il 1918 e il ’22 il reddito si era contratto del 9%; la produzione di vino, tessili e acciaio era scesa a volte in doppia cifra; e malgrado l’inflazione della Grande guerra, quando i fascisti presero il controllo l’indice del costo della vita era in calo.

Le somiglianze finiscono qua, naturalmente. Donald Trump non è Hitler, né Mussolini. La Brexit non fa presagire le conseguenze che l’avvento del populismo ebbe sull’Europa dell’epoca. Colpisce però che le strategie per re-inflazionare l’economia oggi rischino di dimostrarsi per gli altri Paesi ciò che furono già negli anni 30: un gioco a somma zero. Il Regno Unito è riuscito fin qui a ridare fiato all’economia dopo il referendum di giugno solo esportando deflazione in Europa attraverso il crollo della sterlina. L’America di Trump potrebbe avere un impatto simile, se conferma l’impegno del presidente eletto a erodere il libero scambio con l’arma del protezionismo.

Persino il dollaro tra qualche tempo potrebbe dimostrarsi più debole di quanto pensino oggi gli investitori. Il debito pubblico crescente, deficit sempre più profondi negli scambi con il resto del mondo e l’avversione a tassi d’interesse più alti prevedibile in un costruttore indebitato come Trump, finiranno per mettere pressione sul biglietto verde. A quel punto anche l’America starà esportando deflazione verso l’Europa. L’area euro rischia di ritrovarsi con attivi giganteschi nelle partite correnti con l’estero, quote di mercato in calo in un sistema di commercio mondiale in frenata, una moneta forte e la minaccia costante della deflazione. Scommettiamo quale sarà la prossima mossa allora: come negli anni 30, un tentativo di rilancio (anche) tramite l’aumento dei bilanci della difesa. Viviamo in un mondo pericoloso.

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