21 Novembre 2024

Fonte: Huffington Post

di Claudio Padice

Presentato il ricorso delle 16 Autorità Portuali contro la Decisione della Commissione di tassarle. Ecco il testo depositato al Tribunale dell’Ue

I porti italiani fanno causa alla Commissione Europea. È stato depositato il ricorso delle sedici Autorità di Sistema portuale (AdSP) al Tribunale dell’Ue contro la decisione degli uffici dell’Antitrust guidati dalla danese Margrethe Vestager di tassare gli scali italiani. Il 4 dicembre scorso, infatti, Bruxelles ha dato due mesi al Governo per abolire l’esenzione fiscale prevista dalle leggi nazionali per le Autorità portuali, obbligandole ad applicare l’Ires (l’imposta sui redditi delle società) a se stesse. La questione è da tempo al centro di una disputa tra la Commissione e l’Italia non solo per le implicazioni di natura economica ma anche strategica perché può potenzialmente rivoluzionare l’impianto normativo dei porti e aprire la strada ai privati nel management delle infrastrutture più strategiche (54 porti di rilevanza nazionale) per un Paese con circa ottomila chilometri di costa, secondo in Ue solo alla Grecia. L’ex ministra ai Trasporti Paola De Micheli aveva promesso un ricorso da parte del suo dicastero contro il diktat Ue ma poi ha lasciato scadere i termini senza presentarlo. Le autorità portuali, che avevano fino al 5 aprile di tempo, lo hanno appena fatto.
Il ricorso, di cui l’HuffPost è entrato in possesso, chiede al Tribunale Ue di annullare la decisione della Commissione e condannarla al pagamento delle spese. Come si legge nelle 52 pagine, le autorità rivendicano il ruolo che la legge attribuisce loro, cioè quello di enti pubblici non economici, diretta emanazione dello Stato, per cui non tenuti al pagamento delle tasse. Le prerogative attribuite alle AdSP dalla legge, si legge, sono “le medesime riconosciute alle altre entità territoriali o infrastatali come le Regioni e i Comuni”. D’altronde, i porti sono sottoposti “all’indirizzo e alla vigilanza del MiT”, il “rendiconto della gestione finanziaria è soggetto al controllo della Corte dei Conti”.
Secondo gli avvocati estensori del ricorso (Francesco Munari, Stefano Zunarelli, Gian Michele Roberti, Isabella Perego) gli uffici della Vestager hanno omesso di dare conto, nella decisione di dicembre, di un aspetto sostanziale per delineare la natura infrastatale dei porti: ovvero il regime giuridico dei beni, che è di tipo “demaniale” e pertanto li sottrae “in assoluto alla proprietà privata e possono appartenere solo allo Stato o Regioni”. Non c’è quindi, nella gestione delle autorità, la ricerca del profitto tipico delle attività economiche private o imprese, come vorrebbe definirle Bruxelles per poi tassarle; anzi, le concessioni sono affidate a chi si propone di “rispondere ad un più rilevante interesse pubblico”, ricordano le sedici autorità portuali. I canoni che vengono versati alle AdSP “non sono frutto di negoziazione” ma sono stabiliti dalla legge, pertanto la scelta del concessionario ”è svincolata dall’ammontare del canone” che si è disposti a pagare, anche se più alto rispetto a quello degli aspiranti concessionari concorrenti.
Né i porti possono giocare sul costo delle concessioni per attirare più clienti sottraendoli così ad altri porti Ue. Secondo Bruxelles, il canone è alla pari di una locazione, per cui deve essere soggetto a tassazione. Per le leggi italiane invece non si tratta di una “remunerazione di un servizio” ma piuttosto di una “riscossione di una tassa pagata dal concessionario allo Stato e incassata dalle Autorità portuali”. Per questi motivi non si possono pagare tasse su altre tasse, sarebbe un cortocircuito logico, oltreché contabile. A maggior ragione, i canoni pagati dai concessionari non sono soggetti a Iva, proprio perché “l’occupazione del demanio non costituisce un servizio che le AdSP offrono sul mercato”. Anzi, vanno applicati gli stessi principi che valgono ad esempio per i Comuni per l’occupazione del suolo pubblico: il privato che vuole usufruirne paga una “tassa” al Comune su sua diretta concessione, non locazione. Queste interpretazioni sono state condivide anche dai massimi tribunali della giurisprudenza italiana, a partire dal Consiglio di Stato e Corte di Cassazione.
Secondo i porti italiani la Decisione Ue “confonde pertanto la nozione di ‘proprietà pubblica’ con quella dell’appartenenza organica e funzionale alla Pubblica Amministrazione e allo Stato”, si legge ancora. D’altro canto, “le AdSP sono soggetti che non possono fallire”, esclusi dall’applicazione della legge fallimentare, e “la loro esposizione debitoria è debito dello Stato”, per questo “perseguono la parità di bilancio nell’ottica di salvaguardia dei conti pubblici di cui al Patto di Stabilità”.
C’è chi potrebbe obiettare che i porti italiani richiedono per se stessi un regime di favore rispetto agli altri scali europei. Su questo il ricorso sgombra il campo dai dubbi: “Negli altri Stati membri gli enti gestori dei porti sono società per azioni che gestiscono i porti alla stregua di imprese fornitrici di beni e servizi”. Tradotto: operano come attività economiche e prestano servizi portuali dietro remunerazione. Nei casi simili a quello italiano in Francia e Belgio, la natura economica dei porti era confermata dall’assoggettamento a Iva dei loro canoni.  I porti italiani ritengono anzi di essere perciò vittima di una violazione grave da parte dell’Ue di “molteplici principi generali di diritto dell’Unione, fra i quali quello della parità di trattamento secondo cui è vietato trattare in modo uguale situazioni differenti”.
I ricorrenti ricordano come la stessa giurisprudenza europea sconfessi l’impostazione della Commissione, dal momento che “la distinzione fra attività economiche e non economiche può dunque dipendere da scelte di natura politica degli Stati membri”. Se i porti olandesi svolgono attività economica, non è detto lo debbano fare anche quelli italiani (e infatti non la svolgono). In questo modo la Commissione “viola norme di diritto primario” mettendo in dubbio “le modalità con cui lo Stato italiano decide di attuare una propria competenza esclusiva come quella in materia impositiva”.
Ma le violazioni da parte della Commissione sono in realtà molteplici e riguardano sentenze, trattati e finanche principi: “La Decisione ha l’effetto di vincolare al previo assenso della Commissione l’intera politica economica e industriale degli Stati membri”, si legge. Viola poi alcuni articoli dei Trattati, volendo applicare alcune norme sulla concorrenza a “ordinamenti in cui gli Stati membri non hanno aperto alla concorrenza”, come in questo caso i beni portuali in Italia. Su questo punto gli avvocati italiani inchiodano la Commissione che si riferisce a una presunta ed esistente “concorrenza” in un altrettanto presunto “mercato” senza tuttavia indicare – nonostante abbia l’onere della prova – quali potrebbero essere le imprese concorrenti delle AdSP.
Il ricorso elenca una lunga sequela di vizi e pregiudizi di natura tecnica e ordinamentale. Un punto in particolare va messo in chiaro: i porti italiani non intendono pagare le tasse non perché in cerca di una particolare trattamento rispetto agli altri porti ma perché l’ordinamento italiano prevede due principi generali del diritto tributario che non possono essere messi da parte, come fa Bruxelles: “Lo Stato non paga tasse; secondo, non si pagano tasse sulle tasse”. Per questo i ricorrenti si dilungano molto per evidenziare tutte le differenze tra il caso italiano e quelli del passato relativi ai porti in Belgio, Francia e Paesi Bassi.
La questione della tassazione dei porti finisce quindi in tribunale. Ci vorrà del tempo prima che le massime autorità giurisdizionali (Tribunale ed eventualmente Corte di Giustizia) sciolgano i dubbi interpretativi. Ma la faccenda, da un punto di vista politico, è molto delicata. Il diktat arrivato da Bruxelles reca con sé molte incognite non solo sotto il profilo contabile ma soprattutto sotto quello gestionale. Il rischio è che uniformando la portualità italiana a quella del Nord Europa si stenda un tappeto rosso ai privati (comprese le autorità pubbliche straniere) nella gestione di infrastrutture strategiche. Per un Paese che negli ultimi decenni ha sistematicamente sottovalutato l’importanza di una politica logistica, unico tra quelli del G7 a non disporre di un campione nazionale che ne presìdi gli interessi nelle catene di fornitura globale, il rischio di trovarsi sguarniti di fronte agli appetiti stranieri è doppio.

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