Nelle ultime settimane da un lato il comportamento a dir poco timido degli organismi di governo di molti atenei di fronte alle agitazioni studentesche contro Israele, dall’altro certi toni di queste (penso ad esempio a un raccapricciante intervento di una studentessa dell’Università di Bologna di fronte a un corpo accademico ammutolito) hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’Università italiana. Era ora, perché da troppo tempo l’istituzione universitaria è entrata in un cono d’ombra che ha tenuto in gran parte nascosta la sua crisi. Che invece è vasta e profonda.
Una crisi che dipende in misura decisiva da un fattore soprattutto: la concessione di una estesa autonomia alle singole sedi universitarie. La questione è assai delicata in quanto, in specie trattandosi di istituzioni culturali, è ovvia in molti di noi l’istintiva preferenza per la loro autonomia piuttosto che la dipendenza dal potere centrale. E tuttavia a mio parere, qui come ad ogni livello dell’amministrazione di un bene pubblico, la soluzione migliore dovrebbe essere quella suggerita dalla risposta alla domanda-chiave: tra il potere centrale (ma chiamato a rispondere politicamente del proprio operato) e un potere autonomo (oltretutto nelle mani dei suoi diretti sottoposti e di fatto irresponsabile), quale dei due garantisce la maggiore tutela dell’interesse pubblico?
Nel caso specifico la domanda si pone in questi termini: se si dà a un gruppo di docenti (anzi, più precisamente: alla maggioranza di essi che si forma all’interno di un dipartimento o di un senato accademico) il potere di decidere sostanzialmente a proprio piacere quali corsi di laurea un ateneo debba aprire, con quali insegnamenti, e per giunta quali nuovi docenti debbano essere assunti, togliendo di fatto ogni possibilità di controllo al potere centrale, quante possibilità esistono che il suddetto potere operi in funzione dell’interesse generale (utilità effettiva dei corsi prescelti, adeguatezza dei docenti chiamati a insegnare ,ecc.) o invece degli interessi dei docenti in questione — volontà di favorire propri allievi, simpatie, amicizie, logiche di scambio ecc.?
Il consolidato giudizio di numerosi osservatori indipendenti è abbastanza unanime nella risposta. Negli ultimi due-tre decenni le università statali italiane — cresciute specie per incontenibili pressioni locali al ragguardevole numero di circa settanta: in pratica, considerando le sedi distaccate non vi è provincia della Penisola in cui non vi sia una sede universitaria — hanno: A) aperto alcune migliaia di corsi di laurea, non di rado dalle più fantastiche denominazioni, con relativa moltiplicazione dei docenti; B) finché le finanze lo consentivano nella stragrande maggioranza dei casi hanno assunto nuovi docenti di ruolo traendoli esclusivamente da quelli già in qualche modo presenti nella loro sede e quindi ad essi legati; C) quando non era possibile hanno affidato la docenza (in un numero sempre crescente di casi) non già a docenti in qualche modo accreditati ma semplicemente «a contratto», remunerati poche migliaia di euro all’anno. In pratica nell’università italiana, in un grande numero di materie insegna chiunque la semplice maggioranza di un consiglio di dipartimento ha deciso che può farlo. In nome per l’appunto dell’autonomia universitaria. È lecito chiedersi in che senso tutto ciò rappresenti un vantaggio, e quale, per l’interesse generale del Paese?
Elemento peculiare ed esemplare dell’autonomia universitaria nostrana è la trasformazione, avvenuta all’incirca negli ultimi due decenni, dellafigura del rettore: mutatosi in genere dal «primus inter pares» di un tempo non troppo lontano in un dominus autocratico. In un numero crescente dei casi i rettori degli atenei italiani sono tratti oggi dai docenti del dipartimento di medicina o più spesso di ingegneria: non solo perché il numero dei professori in queste due facoltà è aumentato a dismisura e consente loro quasi sempre di condizionare a proprio vantaggio l’elezione del titolare della carica ma perché il carattere sempre più aziendale degli atenei prodotto dal loro status autonomo favorisce chi, come gli ingegneri, si trova a disporre di capacità tecnico-manageriali. Il rettore, insomma, è divenuto sempre di più un «businessman» esperto di conti e di gestione anziché un rappresentante del mondo degli studi e del suo ethos.
In forza della legge il suo, però, è un potere a tempo. Ecco allora che spesso la principale preoccupazione di un rettore diviene quella di utilizzare il proprio mandato per non tornare a insegnare bensì per cercare di assicurarsi un avvenire diverso. Quasi sempre in politica, o nei dintorni. Egli sarà quindi inevitabilmente spinto a servirsi del suo ruolo per allacciare rapporti, stabilire relazioni, cercare ambiti di azioni comuni con gli interessi locali per lo più imprenditoriali e con il notabilato sociale che li rappresenta e il cui appoggio è evidentemente decisivo per il suo futuro. Sicché, oltre a quello che si è visto e detto prima l’autonomia universitaria diventa anche lo sgabello per entrare in Parlamento, fare il sindaco o aspirare a qualche altro incarico pubblico.
Ma stando le cose in tal modo non è forse giunto il momento, mi chiedo, di rivedere qualcosa di tutta questa materia, magari restituendo un po’ di competenze al tanto vilipeso potere centrale di una volta?