Fonte: Corriere della Sera
di Pierluigi Battista
L’istituto democratico del referendum ha per vocazione la possibilità di respingere o confermare «qualcosa», una legge, un valore, una norma, un principio. Si sta inesorabilmente trasformando, invece, in una guerra senza quartiere pro o contro «qualcuno», da demolire o plebiscitare, da ripudiare o da osannare. Se in Italia un cittadino volesse votare nel referendum a favore delle trivelle in mare, ma volesse anche, legittimamente, che il governo Renzi fosse indebolito, cosa può fare: scegliere «qualcosa», il merito del quesito referendario, oppure trovare il pretesto per dare una spallata a «qualcuno»? E come può sciogliere il dilemma l’elettore che fosse a favore di Renzi ma che nel referendum di ottobre volesse votare contro la riforma costituzionale sottoposta a consultazione popolare?
Con questa deformazione, il referendum ne esce ovviamente snaturato e stravolto. Era già sfibrato prima, con la sequenza infinita di appuntamenti disertati dagli elettori con la conseguente mancanza del quorum richiesto. Ma così l’istituto referendario viene alterato fino a renderlo irriconoscibile. Magari lo vorrebbero rivitalizzare con una forte personalizzazione della battaglia referendaria, ma il merito dei quesiti svanisce. I temi spariscono. Il pro o contro si sposta e accade, come nel referendum del prossimo 17 ottobre, che il dibattito si trasferisca sulla liceità o meno dell’astensione. Impegnando il governo su un terreno che non dovrebbe essere il suo e mobilitando addirittura i giudici costituzionali, che entrano volentieri in una diatriba politica già incandescente. Non ce n’era bisogno.
In passato non è quasi mai stato così. Nei referendum più rilevanti della storia repubblicana il merito dei quesiti ha pressoché sempre prevalso sul «qualcuno». Nella battaglia sul divorzio, Pannella da una parte e Fanfani dall’altra hanno certo calamitato simpatie ed avversioni, ma noi ricordiamo bene che il divorzio è stato una svolta civile nella storia del nostro Paese. È stato così anche per il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla depenalizzazione dell’aborto o per quello che ha cancellato la possibilità stessa di costruire centrali nucleari. Una fortissima connotazione politica e personale ha pesato sul referendum sul taglio dei punti di scala mobile, che segnò la disfatta politica per il Pci berlingueriano dopo la morte del leader comunista e la vittoria di Bettino Craxi. Lo stesso Craxi che, con l’invito ad andare al mare nel referendum sulla preferenza unica voluto da Mariotto Segni, ha a sua volta conosciuto il sapore amaro della sconfitta senza prevedere che in quel referendum stessero condensandosi tutti gli umori di rigetto del sistema dei partiti della Prima Repubblica. Ma i temi erano chiari, il merito delle questioni era rispettato e noi oggi ricordiamo le parole divorzio, aborto, nucleare, scala mobile, legge elettorale e molto meno il nome dei leader vincitori o sconfitti.
Poi l’abuso dei referendum, la moltiplicazione dei quesiti fino al parossismo, la difficoltà di concentrare l’attenzione pubblica su temi tanto variegati e dispersivi, tutto questo ha inevitabilmente minato la stessa credibilità di quell’istituto. I referendum annullati per mancanza del quorum sono stati innumerevoli. E quello sulla riforma costituzionale voluta dallo schieramento di Berlusconi e allora bocciata dalla sinistra non suscitò grandi passioni, passando quasi inosservato. Ma il referendum trasformato in plebiscito è un rimedio peggiore del male. Sbagliano i promotori a mettere in collegamento il referendum sulle trivelle con le turbolenze del governo dopo le dimissioni della ministra Guidi. Ma anche il premier non fa una scelta saggia facendo del referendum sulla riforma del Senato l’ordalia decisiva per la sua carriera politica, in un Armageddon finale del Renzi contro tutti, soprattutto perché si è sempre detto che le regole delle istituzioni non sono monopolio di un governo, e anche di una maggioranza parlamentare. Non ci sono nemici da «spazzare via» attraverso il referendum, come usa dire il premier, ma solo avversari di una riforma che continueranno a combattersi anche quando la riforma delle istituzioni dovesse essere approvata. Per fare una discussione anche accesa, democraticamente appassionata, su «qualcosa» e non per l’apoteosi o la rovina di «qualcuno».