Fonte: Corriere della Sera
di Roberto Gressi
La tregua pre-elettorale nella maggioranza già vacilla ed era comunque stata siglata al prezzo di non fare nulla
Forse una sconfitta in Emilia-Romagna non sarebbe stata sufficiente per far cadere il governo Conte. Certo la vittoria non garantisce da sola un passaporto per rimanere in sella. La tregua pre-elettorale nella maggioranza già vacilla ed era comunque stata siglata al prezzo di non fare nulla. Se non il taglio delle tasse sugli stipendi, di per sé scelta apprezzabile offuscata però dal vizio tutto italiano di offrire vantaggi a un passo dal voto.
Nel Pd emergono voglie di riequilibrio e di rimpasto, tra i Cinque stelle si sgomita per stabilire chi comanda davvero, Italia viva, per convinzione e necessità di visibilità, avverte che non farà sconti. Dimenticando che a fronte del successo di Stefano Bonaccini c’è stata la sconfitta in Calabria, quasi imbarazzante per le proporzioni. Il centrodestra aveva già vinto in Sardegna, Basilicata, Molise, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Abruzzo, Umbria. E sono in arrivo le elezioni in Liguria, Puglia, Veneto, Toscana, Marche e Campania. Si dimentica soprattutto che non è di duelli da un voto all’altro che il Paese ha bisogno. Attende la riforma delle tasse, scelte sulle pensioni appena si chiuderà la finestra di quota cento, sostegno all’impresa, al lavoro, risposte per Ilva, Autostrade, Alitalia, decisioni sulla Giustizia.
Un asse si è ormai consolidato tra il premier Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti.Il segretario del Pd si è affrettato a frenare la voglia di rivalsa dei suoi: niente rimpasti, niente voce grossa con i Cinque stelle, piuttosto ricerca di un’alleanza stabile per fare le cose. Il voto lo ha rafforzato e ha maggiori possibilità di dettare la linea. Quello di Conte è invece un percorso più arduo, obbligato com’è a cercare di mettere ordine in un Movimento ormai in piena fibrillazione. Dal trionfo del 4 marzo 2018 sembra passato un secolo e la rappresentanza parlamentare è di gran lunga superiore al consenso che ha ora nel Paese. Le espulsioni e le uscite volontarie dai gruppi M5s si sono moltiplicate, Luigi Di Maio, a torto o a ragione, è sospettato di voler organizzare una scissione, l’ex ministro Lorenzo Fioramonti non fa mistero di avere truppe sue, Alessandro Di Battista resta una mina, vagante non solo per i suoi continui viaggi. Vito Crimi si sforza di convincere i suoi che non è un reggente ma il nuovo capo politico. Il presidente del Consiglio si rende conto che la paura di tornare a votare, peraltro con il taglio dei parlamentari che verosimilmente diventerà legge con il referendum del 29 marzo, non è cemento sufficiente per andare avanti. E che l’Italia non può permettersi una conflittualità permanente se vuole fare fronte a una società che invecchia, sempre in ritardo in Europa sulla crescita economica, in affanno nel gestire l’onda delle migrazioni.
Ma anche l’altra gamba della maggioranza rischia molto. L’euforia post-voto durerà poco se sarà stata solo una boccata d’aria. La sinistra si giova di una figura tutta particolare di angelo custode. Quando tutto sembra perduto, non si sa bene da dove, arriva in soccorso. E’ stato così con il movimento delle sardine, che Zingaretti non si stanca di ringraziare. Fu così con i girotondi di Nanni Moretti. Sono regali che non durano se non si sono meritati. E’ vero che, anche per sue colpe, la spallata di Matteo Salvini al governo è fallita, ma l’autospallata è dietro l’angolo.