Fonte: Corriere della Sera
di Salvatore Bracantini
Intesa Sanpaolo (Isp) ha lanciato un’offerta su Ubi e punta a integrarla. Ma solo raggiungendo i due terzi del capitale l’operazione può chiudersi senza opposizioni
Intesa Sanpaolo (Isp) vuole il controllo di Ubi, Unione Bancaria Italiana, per poi incorporarla; perciò offre agli azionisti Ubi di scambiare 10 azioni Ubi con 17 di Isp. Mira ai due terzi del capitale Ubi, così da poterla incorporare senza opposizioni. L’Offerta Pubblica di Scambio (Ops) è la prima non concordata dal ‘99, quando Credito Italiano e San Paolo di Torino ne lanciarono in contemporanea due, ostili, su Banca Commerciale Italiana e Banco di Roma. Se allora la Banca d’Italia, presa alla sprovvista, le bloccò, Isp ora gode della benigna neutralità della Banca Centrale Europea.
Le banche vivono anni duri; sono troppe, con troppe filiali. Il margine d’interesse è falcidiato dai tassi bassissimi; i concorrenti digitali del Fintech erodono l’altra gamba reddituale, le commissioni sui servizi. A parte il private banking, i cui inverosimili margini occultano a fatica un oligopolio collusivo, esse sono ormai fornitrici di pubblici servizi: manutengono il sistema dei pagamenti, fino a che non ci sarà più bisogno di loro. Perciò il mercato le valorizza una frazione del patrimonio netto. Come certi astri lontanissimi, emanano ancora una viva luce che ormai alla fonte si fa fioca.
Isp cerca i nuovi margini chiesti dagli azionisti per continuare a sostenerla. Solo le sinergie legate a operazioni di aggregazione — soprattutto tagli dei costi, cioè chiusura di filiali e uscite di personale — compensano il calo dei margini. Come molte altre banche, Isp prospetta alti dividendi che, bloccati per ora dal regolatore, restano il vero sostegno ai corsi azionari. Ad alimentarli, dopo tante partite straordinarie — come, in Isp, il contributo statale di 3,5 miliardi per rilevare le banche venete — serve l’Ops. Essa è subordinata solo al superamento del 50% del capitale, ma per realizzare le promesse sinergie serve il 66,6% dei voti in assemblea straordinaria Ubi.
Per questa il discorso è più complicato. Oggi il Consiglio di Amministrazione fornirà agli azionisti dati necessari a valutare l’Ops, inclusi gli effetti «sugli interessi dell’impresa, nonché sull’occupazione e la localizzazione dei siti produttivi». L’offerta è ostile, ma non è detto sia per forza contro gli interessi degli azionisti o di Ubi, che ne ha di suoi. E un compito molto delicato, gli effetti dell’Ops vanno confrontati con il prevedibile futuro di un’Ubi autonoma; vedremo come il parere, certo negativo, sarà motivato, e se ci saranno opinioni divergenti.
Resta da valutare l’Ops in una prospettiva di sistema, lasciando da parte il corale sostegno dei beneficiari di ampia assistenza da Isp. Il vero tema è la concorrenza bancaria, che la vittoria di Isp molto ridurrebbe; nonostante le previste cessioni di filiali alla Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, per l’Antitrust l’operazione «allo stato» non è autorizzabile. Essa ha perciò aperto un procedimento che dovrebbe chiudersi a metà luglio. Fra gli elementi critici, l’Autorità ricorda che se Isp non avesse i due terzi delle azioni Ubi potrebbe non realizzare le promesse sinergie. Per questo e per amor di chiarezza, bisognerebbe che Isp trovasse il modo di porre subito la soglia dei due terzi come condizione al successo dell’Ops.
Essa toglierebbe di scena il perno del terzo polo bancario italiano, dopo Unicredit e Isp, nuocendo anche così alla concorrenza. Da anni ci si aspettava che Ubi avviasse il terzo polo; forse aveva un vertice incontentabile, forse le proposte non attraevano, forse le poltrone non andavano ai nomi giusti. Sta di fatto che alla porta è arrivata Isp, affamata di ulteriori sinergie, inclusa l’eliminazione di poltrone. Ubi è piccola, meno di un decimo di Isp, ma l’uccisione in culla del terzo polo, con UniCredit sempre più proiettata all’estero, induce alcuni a temere che il sistema possa diventare molto squilibrato.