Giusto il sostegno a Kiev, ma sbagliati i tempi. E Schlein dovrebbe sapere che sui principi bisogna tenere duro

Il Piano ReArm Europe presentato la settimana scorsa da Ursula von der Leyen è da considerare una lodevole iniziativa per andare in soccorso dell’Ucraina nel momento in cui le difese stanno cedendo sotto un’impressionante intensificazione dei bombardamenti russi. È bastato che Donald Trump annunciasse la sospensione degli aiuti a Zelensky (rimasto, secondo il presidente degli Stati Uniti, «senza carte da giocare») perché Putin cogliesse immediatamente il segnale e partisse all’attacco. Attacco destinato, per adesso, non già a sfondare in direzione di Kiev — come l’autocrate del Cremlino provò a fare tre anni fa — ma a trovarsi di fronte un interlocutore definitivamente sprovvisto di potere negoziale. Ieri Elon Musk ha chiarito di non aver ancora disattivato il sistema Starlink da lui stesso definito «la spina dorsale dell’esercito ucraino». Esercito la cui prima linea, nel caso in cui Musk decidesse di «spegnerlo», crollerebbe all’istante. Sempre a detta del magnate, il quale non si è preoccupato di nascondere che la notizia conteneva una minaccia.
Von der Leyen, Francia e, da fuori del perimetro Ue, Gran Bretagna, si sono immediatamente attivate per mandare a Zelensky il messaggio che l’Europa non lo avrebbe abbandonato. E hanno ottenuto in ciò il consenso pressoché unanime del continente. Peccato che l’iniziativa (ancorché lodevole come si è detto) sia stata presa in terribile ritardo.
Quantomeno per quel che riguarda i tempi della sua possibile attuazione. Dal momento che, anche se il meccanismo si mettesse in moto rapidissimamente come accadde per l’emergenza, è lecito dubitare che la sua efficacia sia tale da consentire al presidente ucraino di ricevere le «carte» che Trump gli ha rinfacciato di non avere.

E, visto che siamo in tema di dubbi, esprimiamo (nella speranza di essere smentiti) qualche perplessità sulla riapertura delle trattative in Arabia Saudita annunciata per la settimana che inizia oggi. Nel senso che il dibattito europeo sull’attuazione del Piano ReArm Europe non ci è parso tale da mettere Putin con le spalle al muro. Ovvio che tutto possa essere ridefinito, a partire dalla denominazione del Piano, ma l’urgenza è così evidente che alcune obiezioni e messe a punto ci sono sembrate speciose. In momenti come questi non si deve aver paura di tornare alla definizione dei fondamentali di questa storia. Il 24 febbraio 2022 un Paese molto più grande e potente ne ha invaso uno assai più piccolo e indifeso. In un eccesso di realismo (chiamiamolo così) alcuni hanno suggerito al Paese più piccolo di arrendersi all’istante. Ma quel Paese ha deciso di resistere e l’intero Occidente o quasi, pur consapevole che era pressoché impossibile respingere le truppe russe e farle rientrare nei confini del loro Paese, si è offerto di aiutarlo in questa resistenza. Nella speranza di contenere i danni e far sì che solo una piccola parte dell’Ucraina restasse occupata dai russi. Da un anno, molto prima che Trump fosse eletto presidente degli Stati Uniti, la resistenza ha dato segni dapprima di affaticamento poi di cedimento. I «realisti» se ne sono rallegrati e hanno trovato in ciò la conferma delle loro «previsioni». Forse era quello — un anno fa o anche prima — il momento di mettere in moto il Piano ReArm Europe. Ma i tempi dei Paesi democratici sono diversi da quelli dei Paesi a regime dittatoriale. Soprattutto, ed è il nostro caso, se si ha a che fare con una costruzione, quella europea, interrotta a metà. È partita in quel momento una campagna di delegittimazione di Zelensky che è culminata con l’aggressione da lui subita alla Casa Bianca. A questo punto l’Europa si è mossa. Anche perché le è stato chiaro che il disimpegno e le offese di Trump non riguardavano soltanto l’Ucraina.

 

L’Italia nella circostanza non ha sfigurato. Per merito, a nostro avviso, di un capo dello Stato che si è mostrato inflessibile sui punti di cui si è detto poc’anzi. E di una presidente del Consiglio che — pur tenendosi in equilibrio tra von der Leyen e Trump nonché destabilizzata giorno dopo giorno dal pacifismo salviniano — ha retto. Del centrosinistra non si può dire lo stesso.
Per merito di un provvidenziale articolo di Michele Serra — che, dalle colonne di Repubblica, ha «convocato» una manifestazione a favore dell’Europa — si è attivato un movimento che sembrava dovesse portare il Pd ad un allineamento con i partiti socialisti dell’intero continente. Dando per scontato che Giuseppe Conte si sarebbe tenuto a distanza dal raduno europeista, mantenendosi in sintonia con l’asse Trump-Putin. Invece all’interno della sinistra (quella per intenderci di provenienza comunista e democristiana) si è scatenato un putiferio di distinguo e precisazioni che in qualche caso ha sfiorato il ridicolo. La segretaria del Pd Elly Schlein, dopo una tempestiva adesione all’appello di Serra, stava quasi per affogare nell’onda di polemiche che hanno addirittura portato alla richiesta (Luigi Zanda) di un congresso straordinario.
Dall’esperienza passata della Meloni, Schlein avrebbe dovuto apprendere che, quando si è all’opposizione, sulle questioni di principio — come sono ad ogni evidenza quelle connesse a Putin, Trump e Zelensky — si tiene duro. È così che ci si candida a guidare un futuro governo. Stavolta l’ha salvata in extremis Stefano Bonaccini. In tal modo, pur con qualche ammacco, potrà presentarsi gioiosa alla manifestazione di sabato prossimo.

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