Fonte: Repubblica
di Roberto Saviano
Il documentario di Michele Santoro, presentato alla Mostra del cinema di Venezia, dà voce senza filtri a una parte di città che nasce con il destino segnato
Robinù di Michele Santoro è il racconto di Napoli. Riduttivo chiamarlo documentario. È una prova. La prova che tutto quello che abbiamo detto in questi anni in molti non erano menzogne, apocalittiche esagerazioni. Non ci avete creduto? Ecco, prendetevi del tempo e guardate Robinù. È stato presentato ieri sera alla Mostra del cinema di Venezia. Vedrete quella parte di Napoli di cui non si può parlare. Quella parte di Napoli che se la mostri stai diffamando, speculando, stai esgerando, mentendo. Robinù è il racconto di Napoli attraverso voci che in genere non ci arrivano così, nitide, chiare, pulite, senza rumori di fondo. Senza quelle piene di empatia di chi aiuta, senza il cinismo e la precisione della cronaca, senza la severa irremovibilità delle forze dell’ordine, senza l’inadeguatezza e la connivenza della politica. Non sentiamo le domande in Robinù e, quando smettiamo anche di immaginarle, tutto diventa un flusso di coscienza, uno sfogo limpido, comprensibile.
Sembra di entrare nella testa di chi a vent’anni ha già vissuto tutte le vite possibili, quelle accessibili per nascita e status. Sì perché una cosa dobbiamo metterla in chiaro, subito: la Napoli che ci mostra Michele Santoro non potrà mai essere diversa da se stessa, non potrà mai cambiare. I figli di quella Napoli hanno il destino già deciso, segnato. Le varianti sono naturalmente contemplate, ma resta lo specchio di un luogo in cui non esiste mobilità sociale, se vuoi diventare qualcosa di diverso devi andar via, emigrare, lontano più che puoi. Se resti qui sei marchiato a vita, dal tuo nome e dal quartiere in cui sei nato. Tu non sei solo tu, tu sei la tua famiglia. Inutile girarci troppo intorno: se sei figlio del popolo resti popolo. Se vuoi soldi e potere, se vuoi una vita diversa dagli stenti e dai sacrifici dei tuoi genitori o impari a sparare, a farti notare per entrare nella paranza del tuo quartiere, o non hai speranza. Tu sei il tuo quartiere e lo devi difendere, proteggere, a tutti i costi.
Ma cosa significa esattamente difendere il quartiere? Significa difendere l’unica possibilità di lavoro, l’unica possibilità di fare soldi, significa pensare al proprio futuro. E se vi diranno: “Falso: con la buona volontà possono farcela”, rispondete che non si tratta di buona o cattiva volontà, che non si tratta di riuscire o meno a superare un esame all’università, ma si tratta di non poter nemmeno contemplare l’università nel proprio orizzonte di vita. Facciamo attenzione alle attitudini pietistiche e borghesi, o peggio inconsapevolmente aristocratiche di chi in fondo continua a campare ai piani alti dei palazzi nobiliari del centro storico non vedendo chi vive nei bassi. Possono farcela, possono migliorare le loro vite, basta che studino, basta che lo vogliano. Tutto molto bello, ma per desiderare e volere una cosa bisogna conoscerla. Sembra cinismo eppure è realismo: a Napoli, nei quartieri più difficili, non ci sono alternative alla strada. Nessuno offre alternative alla strada.
Emanuele Sibillo è diventato un’icona a Forcella: i protagonisti di Robinù parlano di lui come di un padrino amorevole che di tutti si prendeva cura. Portano il suo stesso taglio di capelli per omaggiarlo e la stessa barba lunga. Trattano la sua memoria come quella di un prete passato a miglior vita, in odore di santità. Parlano di lui come 40 anni fa parlavano di Padre Pio nel Beneventano: tutti giuravano di averlo conosciuto, di essere stati anche solo per una volta e anche solo per un momento oggetto della sua attenzione. Con Emanuele Sibillo a Forcella accade esattamente la stessa cosa. Curriculum criminale eccellente: i Sibillo sono alleati dei Giuliano jr, la terza generazione dei capi di Forcella, con i Brunetti e con il gruppo Amirante. Nemici dei Mazzarella cui contendono il predominio sul centro storico: Tribunali, Forcella e la Maddalena.
Emanuele Sibillo è stato ucciso a 19 anni. La morte lo ha reso eterno, non solo, ha ricompattato un quartiere che solo nominalmente è nella seconda municipalità di Napoli e che solo nominalmente riconosce come autorità cittadina quella del sindaco, ma che in realtà aveva un solo padrone, un solo mentore, una sola guida, nella cui memoria continua a vivere e a sognare un destino di emancipazione: Emanuele, appunto. Sì, ma di quale emancipazione si tratta? Uscire dal ghetto non se ne parla proprio, renderlo piuttosto meno angusto, estenderne i confini. Avere la possibilità di spendere soldi, di spenderne di più. Controllare droga, estorsioni, prostituzione. Ed ecco dunque, se siete alla ricerca di una sostanziale differenza tra la vecchia e la nuova camorra, tra i consorzi criminali che conosciamo e le nuove paranze di ragazzini, la leggete proprio nel rapporto con il denaro. Non sono più spietati oggi. Non uccidono con più sangue freddo. Sono più folli, ma questo dipende dalla giovane età e da quella ferinità, dalla mancanza di limiti e di paura tipica dell’adolescenza.
Hanno invece un rapporto con il denaro che è adolescenziale: possederne per spenderlo, per ostentare. Non esistono progetti imprenditoriali, non esiste nulla che non sia il qui e ora. E questo rende le nuove paranze disordinate, evanescenti, fungine. Proprio come i pesci di paranza cadono nelle reti a decine e come i funghi a decine di nuovo sbucano. Invadono le vie della città, quelle centrali e quelle periferiche, imbracciano armi, sparano, spaventano, feriscono, uccidono. Sono per questo temuti e amati. Non hanno paura di niente e chi supera il limite, comanda. Se esagera viene fatto fuori.
E poi c’è lui: Michele Mazio. Lui che la prima rapina la fa a 13 anni (“Più per scherzare”), lui che scrive una lettera nella quale dice di voler comandare solo lui, di volersi fare una paranza tutta sua. Lui che la chiamata dalla paranza l’aveva avuta, era stato accettato, era all’altezza, poteva entrare e invece l’ha rifiutata. Cane sciolto voleva restare. Lui che è bello e carismatico, lui che è folle e violento, lui che spara contro i poliziotti, bacia la pistola e poi va a festeggiare in un bar a cornetti e champagne. Lui che in carcere riceve lettere d’amore, da sconosciute.
E poi c’è Mariano, il primo volto che appare: “Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te”. Mariano che dal carcere minorile di Airola, racconta come se tutto fosse necessario, la sua scelta criminale, la sua passione per il kalash (il kalashnikov). E proprio dal carcere di Airola, lunedì scorso è arrivato un segnale fortissimo dai clan: una rivolta iniziata per futili motivi è diventata l’occasione per mostrare chi comanda, di cosa si è capaci. Del limite che si deve e si può superare ogni volta. Si tratta di detenuti maggiorenni che hanno coinvolto i più giovani. Detenuti che potevano finire di scontare la propria pena ad Airola e che invece si sono voluti guadagnare il carcere “dei grandi”.
Il racconto di Michele Santoro è il racconto dei Robinù di Napoli, di chi pur agendo contro la legge, è protetto dal suo quartiere, dalla comunità in cui vive e su cui comanda; una comunità che solo in quel percorso si riconosce. Le paranze rubano per dare a loro. I miserabili sono loro che diventano piccola borghesia violenta in una terra (Napoli, Italia, Europa…) dove per guadagnare davvero devi sparare e giocarti la vita. Guadagnare al prezzo di crepare.
Il flusso di coscienza che ha letteralmente assorbito i protagonisti racconta un mondo che vede solo se stesso e per il quale solo incidentalmente noi esistiamo. Un mondo che non può non essere raccontato, ma che quando lo si racconta piovono le accuse: Napoli diffamata, Napoli maltrattata, Napoli denigrata. Napoli raccontata a tinte fosche quando invece è sempre piena di sole. Napoli dove ci vive gente per bene e anche le loro vite vanno raccontate. Come far capire che le vite di chi si alza, fa colazione, accompagna i figli a scuola e va al lavoro, di chi fa la spesa, paga le bollette, porta i figli a calcetto, va in palestra, fa magari volontariato, non possono essere materia di questo racconto? Come è possibile non capire che si raccontano le ferite e le malattie, non la salute e la prosperità?
Le voci delle donne raccontate da Santoro le ho lette nelle ordinanze di custodia cautelare, nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali: sono loro. Per conoscere Napoli non basta poter raccontare di aver sentito chiaramente lo sparo che ha ammazzato l’ultima vittima di Forcella o di essere passato un attimo dopo il raid davanti al bar dove c’è stata la sparatoria. Per raccontare Napoli bisogna trovare ogni volta una ferita, infilarci l’occhio, indagarla, slabbrarla, farla sanguinare. Per raccontare Napoli non servono le voci degli affiliati e poi, subito dopo, quelle delle forze dell’ordine che ci diano versioni uguali e contrarie che con il bene neutralizzino il male.
Per raccontare Napoli bisogna ascoltare il racconto della ragazza madre agli arresti domiciliari diventata spacciatrice per necessità. Per 35 euro al giorno. “Spacciatrici si nasce”, dice e lei non è nata spacciatrice, lei lo fa per mantenere suo figlio. Questo racconto diffama Napoli? Esporta di Napoli e dell’Italia un’immagine che corrisponde solo in parte a verità? Vero, e allora cosa suggerite? Il silenzio? Il velo pietoso?
Il racconto di Santoro è il racconto della fine ed è una testimonianza che aderisce perfettamente alla realtà. È un racconto che aiuta a prendere coscienza. Vediamo Robinù, e poi quando ci diranno che il problema di Napoli è che ha la periferia, con tutte le sue criticità e contraddizioni, nel centro storico – intendendo dire che il centro storico a causa della presenza criminale non può essere il salotto buono della città – risponderemo che non ci interessano i salotti buoni, che non ci interessa il decoro urbano come prova di tufo e piperno del buon funzionamento di una città in cui non funziona niente. Diremo che a noi interessa la verità, che continueremo a cercarla, a raccontarla, ad ascoltarla.