22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Aldo Cazzullo

È stato bello vedere ieri sera, di persona o nella diretta delCorriere, oltre seicento fasce tricolori di sindaci venuti da ogni parte l’Italia ad ascoltare Liliana Segre dire parole semplici e chiare: «Dobbiamo accogliere l’altro per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse»


«Non fa nemmeno freddo…». La Galleria di Milano è un luogo della memoria, anche se la associamo più facilmente allo shopping. Fu costruita dai milanesi per celebrare — con il re — il Risorgimento, che non segnò solo l’unificazione nazionale ma anche la fine dei ghetti, delle forche, della tortura, dei privilegi ecclesiastici. A Milano è passata la storia d’Italia: i bombardamenti, l’occupazione nazista, il binario 21 da cui partivano i treni per Auschwitz, la Resistenza, la Liberazione, la nascita della Repubblica, la ricostruzione. Una senatrice a vita che a quel tempo era una bambina è diventata, suo malgrado, simbolo di tutto questo.
Liliana Segre a lungo ha taciuto. Per decenni non se l’è sentita di raccontare la storia del padre e dei nonni paterni, che ad Auschwitz furono assassinati. Ha tenuto per sé il ricordo indelebile dell’arresto ai confini con la Svizzera, i quaranta giorni trascorsi a San Vittore senza alcuna colpa, i sette del viaggio estenuante verso il lager, il numero 75190 tatuato sull’avambraccio, l’anno di lavori forzati, la marcia della morte verso il territorio tedesco. Dei 776 bambini italiani deportati ad Auschwitz, soltanto 25 sopravvissero. Liliana è una di loro.
Ora che ha trovato il coraggio di parlare, di scrivere libri, di andare nelle scuole, ha pagato il suo prezzo all’odio e all’ignoranza. È finita sotto scorta, il che rimarrà come una vergogna nazionale. Ma dell’odio e dell’ignoranza è stata più forte. Grazie, per una volta, agli italiani perbene. Nella sua città, Milano.
Agli «anonimi della tastiera», come li ha definiti la senatrice, abbiamo dato forse sin troppo spazio. Non sono la società; sono lo specchio deformante del loro narcisismo. Usano parole vuote, formule senza senso, insulti gratuiti che lasciano il tempo che trovano. Ma c’è un limite che non può essere oltrepassato. Questo limite è Auschwitz. È l’antisemitismo. È la persecuzione degli ebrei. È l’odio verso qualsiasi persona additata come diversa ma che, come è scritto nell’articolo 3 della Costituzione, è uguale nei diritti a ogni altra, senza distinzioni.
È stato bello vedere ieri sera, di persona o nella diretta del Corriere, oltre seicento fasce tricolori di sindaci venuti da ogni parte l’Italia ad ascoltare Liliana Segre dire parole semplici e chiare: «Dobbiamo accogliere l’altro per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse». È stato anche divertente vedere il sindaco di Milano Beppe Sala e il presidente dell’associazione dei Comuni, Antonio Decaro, ingarbugliarsi nel tentativo di far indossare la fascia tricolore pure alla senatrice. Ed è stato commovente ascoltare i milanesi intonare spontaneamente l’Inno di Mameli.
La memoria condivisa è difficile da raggiungere, forse impossibile: perché di memoria ognuno ha la sua, e non la può cambiare; e la memoria di chi consegnò gli ebrei ai nazisti non può essere la stessa di chi rischiò la vita per salvarli. I valori invece possono e debbono essere protetti e condivisi da tutti. Quella di ieri non era una manifestazione di parte. L’antisemitismo non ha colore. È esistito ed esiste un antisemitismo di destra e un antisemitismo di sinistra, come è esistito un antigiudaismo cristiano. Contro i nazisti si sono battuti italiani di ogni fede politica, oltre a carabinieri, militari, suore, sacerdoti, ebrei, internati militari in Germania. Il contrario della memoria è l’oblio, è l’indifferenza. Ieri in Galleria, come ha detto Liliana Segre, si sono visti molti giovani, «future candele della memoria». E non faceva nemmeno freddo.

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