Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
La Nato oggi attraversa davvero la sua prima crisi d’identità immersa com’è in un disordine globale che non risparmia i rapporti transatlantici e minaccia il concetto stesso di Occidente
Se Emmanuel Macron sperava di evidenziare le carenze della Nato proclamandone la «morte cerebrale», la festa di compleanno dell’Alleanza che si apre oggi a Londra gli procurerà un amaro risveglio. Spaventati dall’eccesso dialettico del capo dell’Eliseo, tutti gli alleati, a cominciare dalla Germania, si sentiranno tenuti a celebrare in riva al Tamigi l’ottimo stato di salute del settantenne Patto Atlantico, con il risultato di spingere ancora una volta sotto il tappeto proprio quelle manchevolezze che Macron voleva sottolineare. Persino Donald Trump, che continua ad avercela con gli europei perché «fanno pagare agli Usa il prezzo della loro sicurezza», avrebbe deciso di abbassare i toni e di non ripetere la traumatica esibizione del luglio 2018. Trombe e bandiere al vento, allora? Se così sarà, Macron avrà di che mordersi le labbra per il boomerang diplomatico innescato dalla sua fuga in avanti. Perché in realtà la Nato, settant’anni dopo quell’aprile del 1949 ancora segnato dalla Seconda guerra mondiale, oggi attraversa davvero la sua prima crisi d’identità immersa com’è in un disordine globale che non risparmia i rapporti transatlantici e minaccia il concetto stesso di Occidente. I dissensi tra l’America e la grande maggioranza degli Stati europei si sono moltiplicati negli ultimi tre anni, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca: difesa dell’ambiente, dazi e regole commerciali, disarmo nucleare, Medio Oriente e Iran, sbocchi della Brexit, multilateralismo sono soltanto gli esempi più rilevanti.
A Washington la presidenza Trump ha portato sugli scudi l’ideologia della America First, poco compatibile con una grande alleanza che si vuole tra pari almeno in teoria. In Europa le conseguenze ancora vive della crisi economica del 2008-2009, le ricadute di una globalizzazione non governata che nei Paesi sviluppati ha favorito il declino delle classi medie, e l’instabilità politica innescata da populismi e sovranismi, hanno aperto una fase «di transizione» che non si sa dove debba portare. Non basta. Questa Europa esangue, a dispetto della Nato, nel mondo nuovo si sente insicura. Teme di rimanere schiacciata dalla competizione tecnologica e commerciale tra gli Usa e la Cina, paventa la vicina potenza militare della Russia, vede una somiglianza di intenti tra Putin e Trump desiderosi entrambi di avere a che fare con singoli Stati europei non più legati tra loro, e così progetta una difesa europea che talvolta manca di realismo ma la cui urgenza tiene banco almeno nella parte occidentale dell’Unione. Ai metodi irrituali e alle sfide di Trump, insomma, la sponda europea risponde con paure e confusione.
Proprio per questo il primo passo per rilanciare la Nato, al di là dei compleanni e degli umori di Trump o di Macron, passa da una presa di coscienza chiarificatrice su ognuna delle due sponde atlantiche. La difesa europea è necessaria, merita stanziamenti straordinari e deve puntare alle cooperazioni rafforzate tra chi è interessato. Ma non potrà, nel futuro prevedibile, sostituirsi all’ombrello nucleare Usa. Si tratta piuttosto di creare un «pilastro europeo» nella Nato, capace di agire autonomamente quando necessario. Parallelamente gli europei devono aumentare le spese per la Nato nel suo insieme (l’Italia è in cattiva posizione con il suo 1,2 per cento del Pil a fronte del 2 per cento promesso da tutti entro il 2024, ma Trump, di solito, preferisce prendere di petto la Germania poco più brava di noi). Sull’altro fronte l’America deve riconoscere, perché anche questo ha un prezzo, che dall’Europa le viene una profondità strategica cui non può rinunciare se vuole continuare ad essere grande potenza. La Nato fa bene a scegliere una linea di contenimento della Cina e delle sue ambizioni geopolitiche, ma questa linea deve risultare accettabile per tutta l’Alleanza, senza diktat. E opportuno, in aggiunta ai progressi in tema di sicurezza cibernetica, sarà l’annuncio che lo spazio diventa terreno di confronto. Ma non è accettabile (e su questo Macron ha perfettamente ragione) che gli Usa ritirino il loro contingente dal confine turco-siriano e che la Turchia scateni un’offensiva anti-curda in Siria senza che gli altri alleati atlantici vengano avvertiti o consultati adeguatamente.
Proprio qui, con la Turchia che vuole l’approvazione della Nato per le sue gesta in Siria, e che in teoria potrebbe domani dichiararsi aggredita da Damasco, spunta dalla generale ortodossia il più grave dei problemi che insidiano il futuro dell’Alleanza: l’inconfessata crisi di fiducia sull’applicazione dell’articolo 5 del Patto Atlantico, che prevede una reazione armata di tutti se un solo alleato viene aggredito. Nel ’39 la Nato non esisteva, ma le democrazie occidentali decisero di «morire per Danzica». Oggi esiste l’articolo 5 che anche Trump ha confermato dopo qualche resistenza. Ma saremmo pronti, l’America sarebbe davvero pronta a morire per Tallinn, o per Vilnius, o per Riga, o per Varsavia, scatenando una guerra generalizzata contro la Russia (per stare al copione sul quale la Nato si esercita)? Gli odierni Parlamenti, le opinioni pubbliche, i governi occidentali, seguirebbero l’ormai lontano esempio di Danzica?
Non è un caso che Paesi come la Polonia abbiano voluto e ottenuto la presenza di forze Nato, in particolare americane, sul loro territorio: in caso di attacco russo gli Usa sarebbero costretti a difendere i propri boys, che con la loro presenza creano così un effetto deterrente. Nessuno lo ammetterà, ma proprio le insistenze polacche dimostrano come oggi il cruciale articolo 5 non sia molto credibile.
Il veleno che minaccia la Nato è tutto qui: è il dubbio. Ma il dubbio può tormentare anche un potenziale aggressore consigliandogli prudenza. È per questo che l’Alleanza in presunta «morte cerebrale» va sì migliorata, ma resta indispensabile. Per gli americani e per noi europei, in attesa del nostro «pilastro».