
In Europa si parlano lingue diverse e non esiste «un popolo» Ci sono vari Stati. E manca un corpo potenzialmente politico
Dopo ottanta anni dai trattati di Roma, dopo trenta dal trattato di Maastricht e venticinque dall’introduzione dell’euro — cioè dopo un tempo ai giorni nostri storicamente immenso — a ben poco servono manifestazioni e sventolio di bandiere.
E tanto meno serve il richiamo al manifesto di Ventotene: per una ragione che è bene chiarire — sperabilmente — una volta per tutte.
Nel 1941, quando il manifesto fu scritto, l’idea che per superare la disgregazione politica e le degenerazioni ideologiche che la prima Guerra mondiale aveva lasciato in eredità all’Europa fosse necessaria immaginare una forma di unità politica del continente non era affatto un’idea nuova.
Negli anni venti e trenta del secolo essa era stata fatta propria, discussa e divulgata da illustri pensatori di orientamento liberal-conservatore, a cominciare da un certo Luigi Einaudi. Basta andare su Wikipedia per avere qualche informazione in proposito.
La vera novità del manifesto di Ventotene sta nel fatto che qui, invece, per la prima volta la proposta europeista prendeva un carattere nettamente di sinistra, si esprimeva in modalità e vocalità giacobine, e veniva congiunto all’idea di rivoluzione. Si trattava di un aggiornamento ideologico decisivo e in armonia con i tempi. Il quale, unito allo stile apodittico-profetico tipico di questo genere di documenti, ne spiega il successo specie mediatico a cui esso era destinato. Al tempo stesso però — ed è questo, mi accorgo, che è difficile far capire oggi — era proprio questo suo carattere che lo rendeva non solo operativamente del tutto inutile ma direi di più: fuorviante.
Il manifesto, infatti, nella sua visionaria foga profetica dava sostanzialmente per avvenuto o sul punto di avvenire ineluttabilmente ciò che non lo era affatto. Peggio: ciò che si trattava di capire come fare perché accadesse: vale a dire la fine dello Stato nazionale. Vittime di quegli abbagli che lo spirito rivoluzionario spesso produce, nel loro testo Spinelli, Rossi e Colorni sostenevano infatti che ormai in Europa quello Stato era agonizzante. Caduto ormai nelle mani di oligarchie avide e assassine, fomite di nazionalismo, di monopoli sanguisughe, di guerre e di stragi, lo stato nazionale era ormai un cadavere che aspettava unicamente di essere sepolto. E dunque avanti con l’Europa unita.
Naturalmente bastò che la costruzione europea muovesse primi passi per mostrare che non era affatto vero, che si trattava di un’analisi campata in aria: nel 1954 il parlamento francese rigettava il piano per un esercito integrato europeo precisamente in nome di motivazioni riferite alle vicende della statualità nazionale francese. E da allora lo scoglio sul quale s’infranse e naufragò quel piano è restato sempre lì, minaccioso e insuperabile. Per questo non serve a nulla il continuo richiamo al manifesto di Ventotene. Perché in sostanza, sull’opportunità/necessità di muovere verso l’unione dei diversi Stati d’Europa c’è in generale un accordo vastissimo. Ma il grande problema tuttora irrisolto è il come. Come fare a superare realmente lo Stato nazionale? Vale a dire come fare a mettere da parte le sue attribuzioni, i suoi poteri, direi di più la sua storia, per arrivare a decisioni comuni e vincolanti su ciò che è cruciale per l’esistenza di un’Europa in quanto soggetto politico, e cioè la politica estera e la decisione sul ricorso all’uso delle armi.
Se oggi su questo punto non si ha uno straccio di idea, non si sa che cosa proporre, addirittura si evita persino di sollevare il problema, a che cosa serve, mi domando, il richiamo continuo al manifesto di Ventotene? l’evocazione a mo’ di giaculatoria propiziatrice dei nomi dei suoi autori?
Il problema, di difficilissima soluzione, nasce dal fatto che lo Stato nazionale è storicamente l’ambito, l’unico ambito, nel quale ha trovato finora forma la democrazia politica, e quel suo strumento decisivo che è il suffragio universale. E trovarne un altro, ad esempio un ipotetico stato europeo, è maledettamente difficile a causa di un dato storico-identitario (con buona pace di coloro che solo a sentir parlare di identità pensano di trovarsi di fronte al dottor Goebbels). E cioè che non esiste un «popolo europeo». Che di conseguenza gli europei parlano lingue diverse, non possono comunicare tra di loro, e quindi non sono neppure in grado di avere in comune partiti, dibattiti, giornali, trasmissioni televisive, candidature elettorali: cioè una comune vita politica. Gli europei non costituiscono insomma in. alcun modo un corpo potenzialmente politico. Per ogni cosa che riguarda la politica essi sono costretti a restare rinchiusi nell’ambito del proprio Stato nazionale. Che agli occhi dei suoi cittadini resta quindi l’unico vero titolare della legittimazione ad agire politicamente: questo però, come si capisce, costituisce un ostacolo insuperabile rispetto a qualsivoglia ipotesi di un soggetto politico continentale.
Ma se non ci si pone e non si pone al pubblico un tale problema, mi domando, se non ci si sforza d’immaginare una qualche possibile (peraltro io credo difficilissima) soluzione, che senso ha oggi proclamarsi «a favore dell’Europa»? Che senso ha dirsi «europeisti», ma da anni assistere ogni giorno alla puntuale impotenza di quella stessa Europa, alle sue puntuali divisioni senza essere mai riusciti però, a partorire uno straccio d’idea su come e che cosa fare per porvi rimedio?
Con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni l’antifascismo è stata una cosa maledettamente seria, e Spinelli, Rossi e Colorni erano persone serie, serissime. Nessuno di loro merita di vedere che quanto pensarono scrissero a Ventotene tanti anni fa oggi serve come pretesto pei vocalizzi retorici e la miseria intellettuale di chi pretende di raccoglierne l’eredità. Magari rallegrandosi per giunta della sconfitta dell’Ucraina.