22 Novembre 2024

In Medio Oriente parleranno le armi fin quando Israele non smetterà di sentirsi minacciato nella sua esistenza

Immaginate che in una gabbia vengano messi insieme giaguari e linci (queste ultime in numero maggiore dei giaguari). O che in un acquario ci siano due diverse specie di predatori (poniamo: polpi giganti e squali). Immaginate anche che tutto intorno ci siano molti che auspicano relazioni pacifiche e amichevoli fra giaguari e linci e fra polpi e squali. Inutile: giaguari e linci cercheranno di sopraffarsi a vicenda e la stessa cosa faranno polpi e squali. Ci sono oggi molti che non si limitano a invocare la fine dei combattimenti ma che, oltre a ciò, auspicano il definitivo passaggio da uno stato di guerra a uno stato di pace in Medio Oriente. Delle due l’una: o non riescono a comprendere che regimi politici fra loro incompatibili non possono convivere pacificamente oppure lo capiscono ma preferiscono ricorrere a frasi di circostanza che immaginano rassicuranti per il pubblico che li ascolta. La storia non si ripete mai ma qualche insegnamento si può comunque ricavare dalle vicende passate. All’epoca della Guerra fredda si alternarono momenti di tensione e momenti di distensione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non si arrivò alla guerra calda grazie alla reciproca deterrenza nucleare. Ma non ci fu mai pace. E non poteva esserci. Perché le due superpotenze erano i campioni di due modi radicalmente diversi di organizzare la società, propugnavano visioni del mondo contrapposte e incompatibili.
Israele è l’unico Stato al mondo a costante rischio di distruzione fin dalla sua costituzione nel 1948. Per la sua radicale diversità, culturale e istituzionale, rispetto ai suoi vicini. Ha resistito fin qui grazie all’appoggio americano e alla determinazione degli israeliani. Come disse Golda Meir al giovane senatore Joe Biden: «La nostra forza è che non abbiamo un altro posto in cui andare». Ciò significa che non ci sarà mai pace fin quando Israele non smetterà di sentirsi minacciato nella sua esistenza. Dopo avere neutralizzato a più riprese gli assalti degli arabi(sunniti), dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, ha trovato nell’Iran sciita il suo nemico più determinato. Come hanno dimostrato gli eventi del 7 ottobre. La distruzione di Israele è, fin dall’inizio della loro avventura politica, obiettivo degli Ayatollah. Non è un obiettivo negoziabile o sostituibile con altri: è parte integrante del «progetto rivoluzionario» khomeinista, concorre a definire la «ragione sociale» dello Stato teocratico iraniano. Pertanto, fin quando il regime degli Ayatollah durerà, potranno esserci fra Israele e l’Iran (e i gruppi che l’Iran controlla) tregue più o meno precarie. Ma non potrà mai esserci pace.
Il regime iraniano è inviso, secondo tutti gli osservatori, a un’ampia parte della popolazione che esso opprime ma perché crolli — questo è un altro insegnamento della storia — occorre che si verifichino spaccature, violente e insanabili, entro il suo gruppo dirigente. Finché esso conserverà la coesione, il regime durerà.
Comunque, il giorno in cui dovesse crollare (ma certamente non prima), si aprirebbe forse una «finestra di opportunità» per la pace in Medio Oriente. Gli Accordi di Abramo e, ancor più, i comportamenti degli attori regionali nell’attuale conflitto, lasciano intendere che alcuni dei principali governanti del mondo sunnita siano ormai decisi a una completa normalizzazione dei loro rapporti con Israele. Però la cautela è d’obbligo. Oggi i governanti di quei Paesi temono soprattutto l’Iran. Se, causa un cambiamento di regime, l’Iran cessasse di essere per loro una minaccia, non è detto che non riaffiorerebbe l’antica ostilità per Israele. Inoltre, e soprattutto, si tratta per lo più — si pensi all’Arabia Saudita — di regimi «patrimoniali» (ossia il Paese, sudditi compresi, è patrimonio di chi ha le leve del potere). Potrebbero anch’essi prima o poi crollare. Plausibilmente, non verrebbero sostituiti da democrazie ma da dittature islamiste. Israele, in quel caso, tornerebbe ad essere un bersaglio. Né vale molto l’argomento secondo cui si tratta di Paesi interessati alla normalizzazione dei rapporti con Israele perché desiderosi di cogliere le opportunità economiche che solo una condizione di pace durevole mette a disposizione. È un altro ammaestramento della storia.
È durata tanto, ad esempio, l’illusione occidentale che intensificando i legami economici con Cina e Russia esse sarebbero state costrette a liberalizzare i loro regimi interni e, inoltre, ciò avrebbe garantito a lungo rapporti amichevoli con entrambi i Paesi. Non è andata così. L’economia, contro le aspettative occidentali, non è stata in grado (non è in grado di farlo) di «addomesticare» la politica.
Forse, se cambierà la natura di certi protagonisti (Iran in testa) si apriranno prospettive nuove in Medio Oriente. Se gli attori presenti in quel momento — tutti, democrazia israeliana compresa — saranno capaci di non sprecare l’occasione (e se le potenze esterne contrarie alla pacificazione dell’area non riusciranno a interferire) si aprirà un processo dalle conclusioni inedite, un cambiamento davvero rivoluzionario: il venir meno della preoccupazione di Israele per la propria sopravvivenza, la sua definitiva accettazione da parte dei principali attori regionali. Se questo accadesse, potrebbe prima o poi verificarsi anche ciò che oggi non appare possibile (e che venne rifiutato dai Paesi arabi nel 1948): la nascita di uno Stato palestinese in grado di vivere pacificamente accanto allo Stato di Israele.

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