20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Sabino Cassese

Sarebbe ora che le forze politiche si mettessero a un tavolo per raggiungere un accordo duraturo. Alcuni punti fermi in realtà esistono


L’anno è iniziato con la sentenza della Corte costituzionale sulla richiesta di referendum abrogativo della legge elettorale vigente e con la proposta di nuova legge elettorale del presidente della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati. La richiesta referendaria, caldeggiata dalla Lega, mirava alla soppressione dei collegi plurinominali. La proposta del presidente della Commissione affari costituzionali, che ha l’appoggio delle forze ora al governo, va nella direzione opposta, della soppressione dei collegi uninominali (con clausola di sbarramento del cinque per cento e con il cosiddetto diritto di tribuna per le forze politiche minori).
La prima strada è stata chiusa dalla Corte costituzionale. Resta aperta la seconda, contestata, però, dalla Lega e anche da una parte della sinistra. La partita è aperta e rischia di trascinarsi ancora per lungo tempo, facendo dell’Italia un Paese senza pace, nel quale le forze politiche non riescono a mettersi d’accordo su una delle più importanti regole del gioco, il modo di traduzione dei voti in seggi (la «formula elettorale»).
La Corte costituzionale ha più volte ribadito che compito della formula elettorale è di assicurare rappresentatività e governabilità. Essa non deve tradire il pluralismo del Paese, ma deve anche produrre una maggioranza parlamentare coesa, in modo da sostenere governi non effimeri.La prova del carattere transeunte dei governi italiani l’ha data il governatore della Banca d’Italia, in una intervista al Corriere della Sera del 23 dicembre scorso: egli ha osservato che, nei suoi otto anni nella carica, ha dialogato con sette diversi ministri dell’economia, mentre quelli degli altri Paesi europei erano sempre gli stessi .
Ma, più i partiti si dividono (penso alle secessioni da PD, M5S e FI), meno le forze che ne risultano sono inclini ad accettare formule elettorali che premino la maggioranza o la più forte minoranza, e premono per il proporzionale. Dall’altra parte, non appena una forza politica raggiunge o supera un terzo dell’elettorato (è il caso, ora, di Lega e FdI), scàlpita per cercare di raggiungere, attraverso la formula elettorale, la maggioranza dei seggi, e quindi propugna il maggioritario.
Questo pendolarismo fa male al Paese, prigioniero in una campagna elettorale permanente e confuso da un eccesso di proposte di leggi elettorali, peraltro non accompagnate da offerte politiche (programmi), perché tutti i protagonisti cercano l’elettorato intermedio, quello di centro (tutte, infatti, senza distinzioni, prospettano principalmente riduzioni di imposte e tasse). Il patto tra società civile e Stato, su cui si fonda la formula elettorale, è continuamente messo in dubbio. Negli altri Paesi sviluppati, le formule elettorali sono longeve, in Italia sono di breve durata e sempre contestate. Dall’Unità, in quasi 160 anni, abbiamo avuto una quindicina di soluzioni, uninominale, maggioritario a doppio turno (1861), maggioritario a doppio turno con scrutinio di lista e collegio plurinominale con ballottaggio (Zanardelli, 1882), uninominale, maggioritario a doppio turno (1892), uninominale con ballottaggio (Giolitti, 1912), scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale (Orlando, 1918 e 1919), due terzi maggioritario e un terzo proporzionale (Acerbo, 1923, modificata nel 1925), plebiscitario (Rocco, 1928), proporzionale con preferenze (1946), proporzionale e misto al Senato (1948), con premio di maggioranza (1953), maggioritario con un quarto proporzionale (Mattarella, 1993), proporzionale con clausola di sbarramento e premio di maggioranza (Calderoli, 2005), proporzionale con premio di maggioranza e soglia di sbarramento (Renzi, 2015), misto, un terzo maggioritario e due terzi proporzionale (Rosato, 2017).
Insomma, quello elettorale è un cantiere sempre aperto. Sarebbe ora che le forze politiche si mettessero a un tavolo per raggiungere un accordo duraturo. Alcuni punti fermi che consentano di riprendere il filo del discorso, imparando dall’esperienza compiuta e dalle molte sperimentazioni, ci sono.
Innanzitutto, per arrivarci, occorre che si pronunci il Parlamento. Non a caso i costituenti deliberatamente non vollero inserire la formula elettorale nella Costituzione. Non le vollero dare il peso di una norma costituzionale. Allora non è per via referendaria che si deve procedere, sia perché la materia è troppo complessa, sia perché si finirebbe per darle un peso altrettanto forte.
In secondo luogo, sappiamo che il sistema proporzionale non vuol dire necessariamente instabilità governativa (ricordo la «stabilità dell’instabilità italiana», di cui scrisse Andreotti) e che è utile far scegliere il governo all’elettorato (sapere la sera dell’elezione chi governerà), ma che questo non è un requisito indispensabile di un regime parlamentare, nel quale il popolo sceglie i membri del Parlamento e quest’ultimo appoggia il governo. Terzo: la forza politica (la Lega) che oggi spinge per un sistema maggioritario fa di tutto per suscitare una reazione eguale e contraria di coloro che sono preoccupati che una maggioranza stabile guidata da Salvini modifichi la collocazione internazionale del Paese, le alleanze europee, e la Costituzione, impadronendosi della Presidenza della Repubblica, zittendo la Corte costituzionale (dieci dei suoi componenti provengono da nomine nelle mani della politica), riducendo all’obbedienza il corpo giudiziario attraverso il Csm, cioè trasformando una democrazia liberale in una democrazia autoritaria o illiberale, alla pari di Ungheria e Polonia.
Infine, da un quarto di secolo sperimentiamo formule elettorali che hanno dato stabilità ai governi substatali (regioni e comuni). Non è anche questa una lezione dalla quale si potrebbe imparare?

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