Il luogotenente di Giorgia Meloni Giovanni Donzelli ha rivelato, con spensierato slancio, notizie sensibili sui colloqui dietro le sbarre tra l’anarchico e due membri della criminalità organizzata
Forse è presto per valutare appieno tutti gli effetti delle dichiarazioni con cui Giovanni Donzelli ha incendiato il dibattito di martedì alla Camera. Parole rese ancora più inquietanti dal suo ruolo di vicepresidente del Copasir, il Comitato di controllo sui servizi, garante dunque d’una delicatissima sfera informativa che attiene alla sicurezza del Paese. Volendo sgravare Fratelli d’Italia e il governo da qualsiasi sospetto di cedevolezza sul 41 bis, il carcere duro per mafiosi e terroristi, il luogotenente di Giorgia Meloni ha rivelato, con spensierato slancio, notizie sensibili
sui colloqui dietro le sbarre tra Alfredo Cospito e due membri della criminalità organizzata, allungando poi sul Partito democratico ombre infamanti per la quasi concomitante visita di quattro parlamentari dem all’anarchico in sciopero della fame.
Va da sé che possono seguirne conseguenze istituzionali (il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha varato un giurì d’onore proprio su richiesta dei deputati del Pd a difesa della loro onorabilità) e penali (per rivelazione di segreto d’ufficio Donzelli è stato denunciato dal leader dei Verdi, Angelo Bonelli).
Ma le ricadute di maggiore impatto e prospettiva possono essere politiche, come ieri ha spiegato bene Francesco Verderami su queste colonne, persino al netto delle richieste di dimissioni venute da più parti. Innanzitutto, perché, nel tentativo di giustificare il possesso di intercettazioni che appaiono non disponibili né tantomeno divulgabili, Donzelli ha coinvolto l’amico e collega di partito Andrea Delmastro e, così facendo, il ministero della Giustizia di cui quello è sottosegretario con delega alle carceri (si rammenti che s’è appena sopita la baruffa sulle intercettazioni attorno al Guardasigilli Nordio). In secondo luogo, perché il fedelissimo meloniano ha aperto, certo con ben altre intenzioni, uno squarcio nella tela di affidabilità che con pazienza la sua leader tesse in patria e nelle cancellerie di mezzo mondo dal giorno della vittoria elettorale.
E tuttavia c’è di più, una questione politica più sottile. Donzelli ha involontariamente spostato il fuoco del dibattito, lanciando un’accusa fuori luogo a quattro colleghi deputati i quali esercitavano soltanto il loro mandato che prevede, anche, la visita ai carcerati per verificarne lo stato di salute e le condizioni di detenzione. Nel tacciare di chissà quali ammiccamenti al terrorismo (e alla mafia…) quei parlamentari dell’opposizione che facevano, ripetiamolo ancora, null’altro che il loro lavoro istituzionale, ha messo in ombra per imperizia un robusto argomento dialettico della propria parte: il riflesso pavloviano della sinistra (dell’intellighenzia ancor più che delle sue articolazioni politiche) quando nelle mani della giustizia finisce un estremista violento o un terrorista riconducibile, anche in senso assai lato, al grande «album di famiglia» di cui con coraggio scrisse Rossana Rossanda al tempo del sequestro Moro. Non mancano gli esempi, nemmeno troppo lontani, di appelli volti a ottenere clemenza a favore di chi s’è macchiato di crimini anche odiosi ma sotto l’etichetta del sol dell’avvenire. Cospito non è un pensatore gandhiano ma un delinquente che, come ricordava Stefano Feltri sul Domani (pur invocando pietà per lui), celebrava così la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare: «Quel giorno non era una vecchia Tokarev la mia arma migliore, ma l’odio profondo, feroce, che provo contro la società tecno-industriale». In suo favore si sono mossi artisti, attori, disegnatori, opinionisti: e non per le sacrosante cure in carcere ma per la revoca del 41 bis, il regime di detenzione speciale voluto da Falcone.
Così era di certo cosa buona e giusta firmare per la vita di Silvia Baraldini (cui persino Guccini dedicò una splendida canzone), malata e detenuta per terrorismo in una prigione americana: meno lineare fu forse la sua liberazione via indulto, dopo l’impegno assunto con gli americani di farle scontare la pena qui da noi. Nel lungo elenco di chi sottoscrisse nel 2004 un appello a favore del terrorista Cesare Battisti, c’è chi ci ha ripensato e chi addirittura nega di avere mai firmato alcunché, dopo le giravolte da fuggiasco internazionale dell’ex capo dei Proletari armati per il comunismo. Ma c’è anche chi tiene il punto, perché la galera per Battisti avrebbe «aumentato il populismo penale» e “serve una riflessione, non il carcere”, o chi parla di una «sparatoria» per descrivere l’agguato che costò la vita all’orefice Torregiani. Italiani e francesi sono gli intellettuali che su Libération lanciarono una richiesta di amnistia per nove nostri terroristi rimasti oltralpe dagli Anni di piombo, protetti dalla «dottrina Mitterrand» che li elevava a perseguitati politici: «Si sono rifatti una vita». Un antico dirigente comunista come Luciano Violante, rispondendo loro che «anche le vittime delle Brigate rosse avrebbero voluto rifarsi una vita», testimoniò il rigore del Pci berlingueriano contro il giustificazionismo movimentista che, da allora, ancora affligge la sinistra.
Il nodo, tutto politico, non toglie nulla alla questione umana, che riguarda la vita di Cospito, sacra e da tutelare come quella di qualunque altro cittadino nelle mani dello Stato. E nemmeno tocca il punto assai delicato dell’applicabilità al caso specifico del 41 bis alla luce di una sentenza che, come spiega Giovanni Bianconi sul Corriere di lunedì, ridimensiona molto il ruolo «direttivo» dell’anarchico nella sua comunità. Ma se nessuno deve toccare Caino, sarà forse serio ammettere che dalle nostre parti non tutti i Caino sono uguali. Il comitato «E se fossero innocenti?», mobilitatosi a favore dei neri Mambro e Fioravanti, venne fondato in un circolo Arci e raccolse molta intellettualità di sinistra: ma sull’assunto di una trama ulteriore, l’attentato alla stazione di Bologna «come strage di Stato». La storia di Cospito fa saltare tutte le ipocrisie, da una parte e dall’altra, anche quelle sedicenti umanitarie. Luigi Manconi, uno che non ha mai suddiviso l’umanità per colore politico, racconta di quando si riuscì a salvare la semilibertà al fascista Mario Tuti, un feroce assassino, sì, ma in carcere da 46 anni. Bussò a tanti parlamentari del centrosinistra, dice: non uno che gli aprisse.