Il Viminale studia la sentenza della Cassazione sul rimpatrio forzato dell’Asso28 che ha ritenuto Tripoli «porto non sicuro». E si prepara alle class action delle Ong
Evitare di mettere a rischio gli accordi fra Italia e Libia sulla gestione e il rimpatrio assistito dei migranti nei loro Paesi d’origine. Ribadire che il nostro Paese non effettua respingimenti di profughi soccorsi in mare. Ma anche affrontare eventuali class action già minacciate dalle Ong, che potrebbero portare a richieste di risarcimento da parte di chi — rappresentato dalle stesse organizzazioni umanitarie — è salpato sui barconi ma è stato subito ricondotto nel Paese nordafricano, ancora oggi «porto non sicuro» e non inserito nella lista dei Paesi sicuri.
Il Viminale è al lavoro per studiare gli effetti e le contromisure per la sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso del comandante del rimorchiatore Asso 28, condannato per aver consegnato il 30 luglio 2018 alle autorità di Tripoli — in seguito alla richiesta di un ufficiale doganale mai identificato — i migranti che aveva preso a bordo: 101 persone (compresi cinque minorenni e cinque donne incinte) soccorse su un gommone e poi riportate in Libia, senza avvertire il Centro di coordinamento del soccorso marittimo a Roma, né quello libico.
Sebbene si riferisca a un soggetto privato e non un’istituzione — l’Asso 28, dell’armatrice Augusta off shore di Napoli, operava per la piattaforma petrolifera Sabratha della società Mellitah Oil&Gas, partecipata di Eni Nord Africa e della libica Noc —, il provvedimento della Corte suprema potrebbe nascondere insidie per l’attuale sistema di respingimenti ma anche dei soccorsi in molti casi affidati ai libici, anche se sulla base di una ricostruzione dei fatti ancorata a ciò che accadde sei anni fa, in un momento storico nel quale la Libia era nel caos: continui scontri fra le milizie dopo la fine della guerra civile, grave situazione di instabilità istituzionale e politica, precario controllo delle coste. Oggi, pur con le difficoltà ancora esistenti — sottolineate ancora ieri dall’inviato Onu in Libia Abdoulaye Bathily —, lo scenario sembra essere diverso. Lo dimostra la visita di mercoledì del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dall’altra parte del Mediterraneo per incontrare i vertici del governo di Tripoli, primo fra tutti il suo omologo Imad Mustafa Trabelsi, e avviare progetti in accordo con l’Ue legati ai rimpatri volontari assistiti dei migranti verso i Paesi d’origine.
Un altro tassello di una collaborazione che prosegue da anni, non solo con l’Italia ma anche a livello internazionale, anticipata nel marzo 2019 dalla nota con cui la Direzione degli Affari interni dell’Ue riconobbe i progressi delle autorità libiche nella gestione della loro zona Sar (ricerca e soccorso) di competenza, ma anche le capacità della Guardia costiera di Tripoli di coordinare operazioni di soccorso nelle acque territoriali.
Nel documento venivano riprese anche le considerazioni del Comitato per le sanzioni dell’Onu che, proprio sulla base dei risultati raggiunti allora dalle unità navali di Tripoli, definì la Guardia costiera «una struttura legittima e legittimata dal governo di accordo nazionale, che a sua volta è riconosciuto dalla comunità internazionale». Un ente quindi in grado oggi di coordinare interventi che, come sottolinea anche la sentenza dei giudici della V sezione della Cassazione in riferimento alle contestazioni mosse al comandante del rimorchiatore, rappresenta un’autorità marittima competente che deve essere avvertito in caso di necessità. In un Paese — avverte ancora l’inviato Onu Bathily in occasione delle celebrazioni per il 13° anniversario della Rivoluzione del 17 febbraio — dove «l’attuale status quo rappresenta una minaccia significativa per l’unità nazionale: la fragilità delle sue istituzioni e le profonde divisioni all’interno della nazione rappresentano gravi rischi per la stabilità».