8 Settembre 2024

Cultura di governo: Meloni si muove bene all’estero, in Italia le sue nomine sono tutte missine o post missine. E nel suo ambiente deve fare pulizia nella maniera più decisa, evidente, pubblica

Non capita tutti i giorni che l’intera Camera dei deputati si alzi in piedi ad applaudire il presidente del Consiglio. Anzi, diciamocelo, non capita mai. Invece è accaduto mercoledì scorso quando Giorgia Meloni ha usato parole forti per condannare l’«orribile disumana morte» di Satnam Singh, puntando l’indice contro «l’atteggiamento schifoso del datore di lavoro» e definendo l’accaduto come frutto «dell’Italia peggiore». Quando hanno sentito la premier che parlava così, i deputati si sono levati dal loro scranno ed è partito l’applauso. Unanime. Eccezion fatta per ministri, viceministri e sottosegretari. Ai quali lei stessa ha dovuto rivolgere una brusca esortazione vernacolare perché anche loro si alzassero in piedi. E per una frazione di secondo si è visto anche qualcuno che faceva fatica a capire come comportarsi.
Questo piccolo, marginale, episodio ci dice molto dell’attuale compagine di governo. Persone che, per mancanza di sensibilità o per distrazione da smartphone, non sono neanche capaci di cogliere un’opportunità davvero unica. E che, con le dovute eccezioni, interpretano il loro ruolo come qualcosa di dovuto, un seggio ministeriale da cui si alzeranno solo per andarsi a sedere su un altro di maggior prestigio. Per il resto occuperanno parte del loro tempo con gaffe o disavventure varie atte a far danno al loro governo. Non tutti, ovviamente. Comunque, troppi.
A un anno e otto mesi dall’ingresso di Meloni a Palazzo Chigi, è giunto il momento di fare un primo bilancio dell’esperienza sua e dei suoi all’interno del Palazzo. Lei si muove bene quando è fuori dai confini italiani. E non siamo d’accordo nel giudicare negativamente il modo in cui ha fin qui condotto la partita europea. Può darsi, è evidente, che tale partita si concluda con un nulla di fatto. Ma il rapporto che nei mesi scorsi Meloni ha tessuto con Ursula von der Leyen, ci induce ad affermare che può permettersi di tenere nascoste le sue carte e attendere quantomeno l’esito delle elezioni francesi. Anzi, consideriamo saggio procedere in modo diverso da quel che fece cinque anni fa Giuseppe Conte (all’epoca coalizzato con lo scalpitante Matteo Salvini) il quale regalò alla von der Leyen i voti determinanti del M5S per poi essere parzialmente compensato, in patria, con la nascita del suo secondo governo in compagnia stavolta del Partito democratico. Saggio dal momento che, immaginiamo, il progetto della premier sia di più ampio respiro e preveda il coinvolgimento di una parte della destra europea. In funzione atlantica, beninteso.
Quel che ci appare, invece, fin qui deludente è il mancato allargamento della maggioranza. Giorgia Meloni non ha bisogno di voti in più. Ma necessiterebbe del coinvolgimento di personalità scelte fuori dalla sua cerchia, che dessero lustro, idee, vigore e forza ai suoi ambiziosi progetti. Convincendola a modificare tali progetti laddove vanno, ad ogni evidenza modificati.
Tornando all’Europa, nel 1994 quando si trovò nelle sue condizioni, Silvio Berlusconi propose come commissari Mario Monti, Emma Bonino ed era sul punto di convincere persino Giorgio Napolitano. E pose le basi per l’ingresso nel Partito popolare europeo. Lei, se tutto andrà per il verso giusto, troverà un posto per l’ottimo Raffaele Fitto o per qualcuno che sicuramente non è meglio di lui. Troppo poco al paragone con Berlusconi.
Quanto all’Italia, le nomine a lei riconducibili — tranne quelle che vanno considerate un lascito di Draghi — sono tutte o quasi di derivazione missina, post missina. Qualcun’altro vanta (magari a sproposito) la qualifica di «amico delle sorelle Meloni». Possibile che in quasi due anni la premier non abbia conosciuto qualcuno, di fede e provenienza diversa dalla sua, che l’abbia colpita per intelligenza e preparazione? Qualcosa per indirizzarla su vie diverse ha fatto, con discrezione, il Quirinale. Luciano Violante e Sabino Cassese sembrava si prestassero a farle percorrere strade lungo le quali avrebbe potuto incontrare personalità interessanti. Ma il primo ha gettato la spugna, il secondo è come se lo avesse già fatto. Altri adesso potranno aiutarla. Li scelga lei. Persone di cui si fida. Ma non può trascorrere tutta la vita nel cerchio stretto delle «sorelle Meloni» appena appena allargato.
E qui il discorso si congiunge a quello del suo ambiente di provenienza. Non può essere considerata una congiura di «Fanpage» se ogni due per tre ci si imbatte in personaggi più o meno giovani che, qualora siano parlamentari, cercano la rissa e, appena si ritrovano in privato, se ne escono con simboli, slogan o canti fascisti e nazisti. Che hanno come destinatario, come nel caso più recente, persino parlamentari ebrei di Fratelli d’Italia. Un giorno viene fuori Paolo Truzzu, poi Paolo Signorelli, adesso Flaminia Pace, domani chissà. Tutti espulsi o accantonati, per carità. Ma solo dopo che le loro immagini si sono viste in tv. Mai prima.
Tocca a lei far pulizia di questo mondo. Nella maniera più decisa, evidente, pubblica. E immediata. Dovrebbe cacciarli via prima che siano conosciute le immagini di questo loro modo di vivere la «dimensione privata». Anche perché forse le persone di cui avrebbe bisogno non si lasciano coinvolgere soprattutto per non mescolarsi a questo genere di ambientini. E quelli che si fanno «avvicinare» (per ottenere ad ogni evidenza qualche regalia), alla prima difficoltà — è risaputo — saranno le più leste a prendere la via della plateale dissociazione. Persone di sperimentato (e stranoto) cinismo. Prive di qualsivoglia passione politica. A cui mai passerebbe per l’anticamera del cervello di alzarsi spontaneamente in piedi per onorare la morte di Satnam Singh.

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