A rendere più articolata l’offerta sarebbe dovuta intervenire la concorrenza e invece non s’è vista
Dopo i fasti pluriennali di un’attenzione a tratti smodata siamo approdati alla sostanziale invisibilità dei ceti medi. Per lungo tempo dal cambio lira-euro agli anni che hanno preceduto il populismo e la pandemia l’evoluzione politica e sociologica degli strati intermedi aveva mobilitato l’interesse della politica e dei media. Nella definizione di ceto medio vale sempre la perfetta definizione del sociologo Arnaldo Bagnasco, secondo la quale ne faceva parte «chi ritiene di aver trovato un posto per lui accettabile e riconosciuto nella società in cui vive senza seri problemi per un soddisfacente tenore di vita e di sicurezza per il futuro». Altri tempi si dirà ed è vero. Anche perché l’attenzione era giustificata dal ruolo che gli intermedi giocavano come garanti della stabilità del sistema e supporter delle politiche centripete. Parliamo di stagioni del consenso in cui il potere della comunicazione e delle bandiere identitarie era sicuramente meno pronunciato di oggi: gli schieramenti contrapposti si sbracciavano per conquistare il favore dei ceti medi e la politologia era prodiga di analisi sul valore delle scelte bipartisan.
Queste tendenze di fondo finivano per mettere in secondo piano la mappa delle differenze: la società dei ceti medi assomigliava a una grande insalata che mescolava numerosi ingredienti ed era difficile già allora (si pensi al tema della fedeltà fiscale) ricondurre il tutto ad unum. C’erano gli intermedi lavoratori dipendenti e quelli autonomi ed esistevano già allora forti differenze di reddito tra la fascia alta e quella bassa. Tutte le disomogeneità però passavano in cavalleria oscurate dalla narrazione del ruolo e della centralità dei ceti medi.
A cambiare radicalmente la scena sono arrivate le grandi novità della tecnologia e i percorsi del consenso politico. I sistemi elettorali da centripeti si sono trasformati in centrifughi e la propaganda degli attori politici si è rivolta a un altro tipo di elettore, più insicuro e infedele ma capace di far sentire quotidianamente la sua voce sui social. Ovviamente queste dinamiche non hanno travolto il ceto medio, ne ha però mutato il posizionamento sociologico. Dal punto di vista dei comportamenti elettorali gli intermedi o si sono radicalizzati privilegiando le proposte più urlate o si sono astenuti dal voto e così hanno contribuito direttamente o indirettamente alle continue convulsioni del sistema politico e alla formazione di governi/maggioranze a volte estemporanei.
I provvedimenti presi nel frattempo dai governi politici che hanno guidato il Paese sono stati contraddittori. Se il reddito di cittadinanza, al di là di alcuni difetti di fabbricazione, è catalogabile come una misura di redistribuzione verso gli ultimi, l’eco-bonus ha discriminato all’interno del corpaccione dei ceti medi. Ha finito per pesare maggiormente più a favore dei proprietari delle villette che del popolo dei bilocali, a favore dunque di un ceto medio superiore sufficientemente patrimonializzato. E capace di sfruttare il boom degli affitti brevi e la forza di Airbnb. La flat tax va sicuramente a favorire gli intermedi autonomi segnando però una forte disparità di trattamento fiscale con i «cugini» lavoratori dipendenti. D’altro canto l’attenzione della premier Meloni per i sondaggi favorevoli al salario minimo dimostra come la linearità tra provvedimenti economici, platee interessate e schieramenti politici tradizionali è saltata. O comunque non segue regole fisse.
A scardinare però l’unitarietà del soggetto «ceti medi» il fattore più potente si sono rivelati l’inflazione e il modo con cui «la più iniqua delle tasse» ridisegna la mappa dei soggetti sociali ed evidenzia le differenze di reddito. Negli anni scorsi si è accumulato — soprattutto per i mancati acquisti in periodo di lockdown — un consistente stock di risparmio, spesso parcheggiato sui conti correnti, e queste somme nel momento della riapertura hanno sostenuto una vivace ripartenza dei consumi. Autostrade intasate, stadi pieni, concerti con numeri record, ristorazione al completo, turismo breve da week end assai vivace. Un movimento che aveva autorizzato rosee speranze sulla crescita italiana ma che si è prima contratto e poi esaurito di fronte ai colpi dell’inflazione e alla sostenuta dinamica dei prezzi, che vista dal versante dei nostri ceti medi ha spaccato il gruppo e ha spinto ulteriormente all’ingiù gli intermedi più in basso nella scala del reddito. Pensiamo a due fenomeni significativi come la diminuzione delle vendite di generi alimentari o l’ondata di revoche delle prenotazioni balneari estive, sono tendenze che segnalano la difficoltà del ceto medio basso a mantenere il proprio tenore di vita. Anche per effetto dell’aumento delle voci del suo paniere-base di spesa (energia e cibo). Il risultato economico è stato quello di accentuare anche all’interno degli intermedi una polarizzazione alto-basso, quello sociologico di una crescente invisibilità. Qualche considerazione si può aggiungere dal lato dell’offerta: la maggior parte delle nuove proposte di investimento (alberghi e immobiliare, soprattutto) sembra indirizzata a privilegiare il mercato alto di gamma che non si è ridotto di consistenza e si è dimostrato quasi anelastico rispetto all’inflazione. Meritevole quindi di essere privilegiato rispetto invece a un mercato del «made in Italy democratico» e abbordabile che non è giudicato attraente o comunque foriero di grandi ritorni. Le polemiche attorno alle proposte del governo per tentare di raffreddare l’inflazione con un paniere di beni di largo consumo a prezzi calmierati, al di là del giudizio tecnico sulla proposta, lo dimostrano. A mitigare la polarizzazione e a rendere più articolata l’offerta sarebbe dovuta intervenire la concorrenza e invece non se ne è vista nemmeno l’ombra. L’unica componente che ha giocato a favore di un compattamento del ceto medio è stata finora l’occupazione: più persone che lavorano in famiglia, anche se con retribuzioni basse, frenano i processi di polarizzazione. Gli ultimi dati dell’Istat che hanno segnalato un calo quasi tutto concentrato nei contratti a termine ci dicono però che le imprese o hanno interrotto la stabilizzazione dei precari o hanno chiuso l’accesso alla pipeline del mercato del lavoro.
Ma, ed è questa forse la domanda più intrigante, se la politica identitaria e social pensa di poter fare a meno della consistenza dei ceti medi l’economia può consentirsi di fare la stessa scelta? Gli intermedi saranno pure invisibili, saranno spiazzati dai flussi politici centrifughi ma non scompaiono, si accentuano le differenze interne, si sfrangiano ma sono sempre lì. Se però consumano meno cibo, se rinviano gli acquisti di beni durevoli, se disperano di poter accendere un mutuo il Pil finisce, come ben vediamo, per avvertirne il contraccolpo. I sondaggisti più freddi obietteranno che tutte queste considerazioni contano poco rispetto a una ben orchestrata campagna del lancio di un generale nell’arena pubblica o delle invenzioni di un ministro molto versato nell’utilizzo dei social ma i numeri dell’economia alla fine una loro forza ce l’hanno.