18 Ottobre 2024

Il colloquio di lavoro non potrà mai essere gestito dalla tecnologia, a patto di essere condotto nel modo giusto e per le finalità giuste

Nel mondo dei big data e dell’intelligenza artificiale si comincia a pensare che una serie di processi aziendali possano essere più o meno completamente “disumanizzati”, anche quelli che tradizionalmente presentano una forte connotazione “umana”. Pensiamo al processo di selezione. Davvero ha ancora senso organizzare dei colloqui di selezione? Non può essere un algoritmo a condurre il colloquio e a suggerirci qual è il candidato giusto?
Per rispondere bisogna porsi un’altra domanda: cos’è il colloquio di selezione? Se pensiamo che il colloquio sia essenzialmente un dialogo per verificare i requisiti di un candidato e permetterci di fare il “match” tra persona e requisiti allora non è meglio delegare questo compito alla tecnologia che lo può fare molto meglio di noi? In fondo non c’è bisogno di un manager in carne e ossa per porre delle domande. Lo può fare benissimo un “virtual recruiter” ben addestrato. E non c’è bisogno di un manager neanche per elaborare le risposte. Gli algoritmi di job “matching” possono infatti capire meglio di noi se c’è il “match” tra candidato e requisiti richiesti. Spulciano i dati e senza farsi condizionare da tutti i nostri bias e pregiudizi ci dicono se il candidato è quello giusto, con una possibilità di errore molto più contenuta di quella che avrebbe un essere umano.
E’ la fine del colloquio “umano”? Sì se interpretiamo la “job interview” come mera verifica di requisiti. Ma se ampliamo il discorso ci rendiamo conto che il colloquio di lavoro non potrà mai essere gestito dalla tecnologia, a patto di essere condotto nel modo giusto e per le finalità giuste. Provo a spiegare perché.
Noi assumiamo requisiti o assumiamo persone? Vogliamo una sommatoria di competenze o una bella persona che sposi i nostri progetti e la nostra visione? Vogliamo qualcuno che svolga delle mansioni o un partner che non ci tradisca nel momento del bisogno? La risposta è scontata. Noi non vogliamo capire soltanto se la persona con cui collaboreremo sa usare un software ma anche che cosa fa la domenica pomeriggio, qual è il suo “mondo nascosto”, che rapporto ha con le sorelle e con i vicini di casa. Ma se è così, perché i nostri colloqui di lavoro continuano ad essere una banalissima serie di banalissime domande? Perché continuiamo a chiedere “dove si vede tra dieci anni?” e non chiediamo mai “che rapporto ha con le sue sorelle”?
Siamo prigionieri di un rituale di verifica requisiti quando invece ciò che ci interessa è conoscere una persona così come faremmo in treno con uno sconosciuto. Questo atteggiamento ha degli effetti molto concreti: se devo verificare requisiti ti pongo le classiche domande. Se invece voglio conoscere una persona non ho domande preconfezionate “da questionario”, ma ho uno stile conversativo perché voglio appagare una curiosità esistenziale e quindi arrivo anche a domande del tipo “Come gestisci la malinconia delle domeniche pomeriggio?”.
Nel mondo dei big data e dell’intelligenza artificiale i colloqui di lavoro dovrebbero affrontare un cambio di paradigma caratterizzato da due punti fondamentali:
1) Non mi interessano i requisiti professionali di un candidato. Mi interessa conoscere una persona. Non ti valuto. Voglio solo conoscerti.
2) Il colloquio lo facciamo in due perché altrimenti diventa un’interrogazione e non un dialogo. Nel mondo del lavoro di oggi il rapporto tra chi assume e chi viene assunto è sempre più paritario. Io scelgo te e tu scegli me. Ci scegliamo se ci possiamo conoscere. Quindi non ti racconti solo tu candidato. Anche io selezionatore devo mettermi a nudo nella conversazione. Non è un’intervista unidirezionale quindi, ma una conversazione in cui il candidato non è apprezzato solo per quello che dice, ma anche per quello che ascolta (e per come ascolta).
I benefici di questo cambio di paradigma nei colloqui di selezione sarebbero numerosi:
1) I candidati vivrebbero il colloquio come un’esperienza piacevole e non stressante.
2) I selezionatori darebbero un segnale di profonda attenzione: ti sto considerando per un progetto di lungo termine dove conti tu come persona prima del tuo “zaino di requisiti”, con ricadute molto positive sull’employer branding, la percezione del marchio dell’azienda.
3) I selezionatori sarebbero molto più capaci di intravedere possibili criticità future nel rapporto di collaborazione.
4) I selezionatori riceverebbero feedback molto più sinceri e originali, sulla loro azienda e i loro progetti.
5) I selezionatori si arricchirebbero come persone perché i colloqui diventerebbero molto più densi dal punto di vista umano, assomiglierebbero a interviste giornalistiche: oggi conosciamo la storia di… e il mondo di… per il puro piacere di conoscerli.
E’ un cambio di paradigma per i recruiter. Da “verificatori di requisiti” ad “amabili conversatori”. Cambia lo stile, l’approccio il metodo di gestione dell’incontro con il candidato. C’è molta strada da fare. Ma bisogna mettersi in moto subito perché gli algoritmi avanzano.

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