23 Novembre 2024

Fonte: Il Mattino

di Alessandro Barbaro

Cari lettori, quello che mi accingo a scrivere è il mio ultimo articolo da direttore del Mattino. Il mio rapporto con questo giornale, che ho molto amato, e sempre molto amerò, si interrompe per decisione dell’Editore. A cui va in ogni caso il mio ringraziamento sincero per la fiducia accordatami per quasi sei anni.
Durante questo periodo la crisi del Paese è andata sempre più coincidendo con la crisi del suo racconto. E cioè con l’imporsi di una retorica che ha svuotato di senso le parole su cui si fonda il patto civile tra rappresentati e rappresentanti, tra cittadini e istituzioni. Con l’effetto di indebolire la delega del sapere e del potere, annullare la valenza simbolica dell’autorità, azzerare le forme della democrazia, instaurando nel discorso pubblico un analfabetismo che ci fa vedere l’Italia peggiore di quanto sia nella realtà. Così sfuma ogni differenza tra le élite e la casta, tra il compromesso e l’inciucio, tra le prerogative quirinalizie e i veti eterodiretti. Allo stesso modo è possibile dichiarare l’impeachment del capo dello Stato e il giorno dopo recarsi al Colle per un colloquio privato, senza che ciò abbia alcuna conseguenza apparente sulla qualità delle relazioni istituzionali. Ciò vuol dire che più le parole sono forti, meno valgono.
A una babele di parole irrilevanti è ridotta la politica. La tattica detta i tempi e occupa gli spazi di una dialettica pubblica caduta in un’impasse permanente, senza esiti né direzione. La tattica ci consegna dopo tre mesi di trattative un governo che lega in un contratto due radicalismi, ma ci consegna anche l’urgenza di una pedagogia civile capace di rieducare la società. È in questo momento che si sente la mancanza di un pensiero moderato, in grado di persuadere i cittadini, con la stessa efficacia del populismo, che la democrazia non è solo utile e necessaria, ma è anche bella, con tutte le sue imperfezioni.
Con una tenacia pari al prestigio della sua storia, il Mattino ha perseguito questo obiettivo. Tanto più la grammatica civile si semplificava e perdeva le sue congiunzioni, tanto più il giornale ha fatto esercizio di traduzione della complessità. Poiché nessuna conoscenza che si rispetti è riducibile a bianco o nero, ma rivela la sua profondità nelle sfumature di grigio che è in grado di rendere visibili. Che si parlasse dell’eclissi del Mezzogiorno nell’agenda dei governi, o piuttosto della sua narrazione per stereotipi nella fiction e nel romanzo, dello scolorire dell’Europa nella coscienza delle opinioni pubbliche o piuttosto dell’impatto delle migrazioni sulle società, dell’efficacia della lotta alla corruzione o piuttosto delle garanzie dei cittadini di fronte alla pervasività della giustizia, dell’espansione dei diritti civili o piuttosto dei limiti alle possibilità della tecnica, questo giornale ha cercato una sintesi tra tutte le ragioni in campo.
Ma la sintesi non è mai stata comoda terzietà, quanto piuttosto approdo convinto di una dialettica aperta e senza pregiudizi, capace anche di prendere e difendere posizioni forti e in controtendenza. Il Mattino in questi anni lo ha fatto coltivando il metodo del dubbio e del confronto che si accendeva ogni mattina in una redazione meravigliosa, e si spegneva solo a notte, quando anche l’ultima edizione era chiusa, per ravvivarsi poche ore dopo. Con la convinzione che anche il dissenso, soprattutto il dissenso, è un’energia del miglior giornalismo.
Devo molto a questi colleghi col tempo divenuti amici, con cui ho condiviso momenti di straordinaria intensità. Separarmi da loro, nessuno escluso, mi costa. Ma è la dura legge del direttore, la cui avventura professionale è solo un segmento della vita di un grande giornale, quasi a ricordare, anche a lui, che un grande giornale non appartiene a nessuno, è patrimonio di una intera comunità e passa tra le generazioni. E va perciò protetto come un bene prezioso. Devo altresì un grazie sincero a una pattuglia di editorialisti di grande qualità, provenienti dai più diversi contesti culturali e geografici del Paese, cresciuti in questi anni attorno al Mattino nella libertà che si deve riconoscere a un pensiero originale.
Mi conforta lasciare un giornale rinnovato da pochi giorni nella sua veste grafica, e dopo aver ricordato con un premio letterario, a lei intitolato, la fondatrice Matilde Serao, una giornalista di razza che non piegò la schiena ai sovranismi montanti del primo Novecento, e anche per questo perse il Nobel. Mi sono ispirato, i lettori giudicheranno se e quanto ci sia riuscito, al suo esempio morale, alla sua capacità di raccontare Napoli e il Mezzogiorno con distacco e senza fare sconti, ma con rispetto e amore per il suo popolo.
Ho amato anch’io Napoli dal primo giorno, e dopo sei anni la sento dentro di me come una linfa vitale. Suggerisco al mio successore, Federico Monga, di fare altrettanto. È bravissimo e perbene, ha tutte le qualità per vincere la sfida che da oggi ha davanti a sé. Gli auguro di avere coraggio.

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