19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Beppe Severgnini

Due terzi dei tories alla Camera dei Comuni hanno deciso di mantenere Theresa May
al numero 10 di Downing Street. Ma la partita non è ancora finita


Brexit sta diventando un’attrazione turistica (parole ascoltate sulla Bbc), e questo non è dignitoso per il Regno Unito. La confusione intorno all’uscita dall’Unione Europea è spettacolare. Ma come non provare ammirazione per la guerriera Theresa May? Ieri sera è sopravvissuta al voto di fiducia del partito conservatore. In segreto, 200 parlamentari su 317 hanno votato per lei. La promessa di non ricandidarsi alla guida del governo nel 2022, certamente, ha aiutato il Primo ministro in questo delicatissimo passaggio. Gli inglesi ammirano lo stoicismo. E certamente Theresa May, tra un errore e un passo falso, ne ha mostrato in abbondanza.
Back her or sack her. Appoggiarla o licenziarla. Questo era il dilemma che il partito di Winston Churchill e Margaret Thatcher ha affrontato; e il responso è stato chiaro. Due terzi dei tories alla Camera dei Comuni — più o meno lo stesso numero, nel 2016, l’avevano scelta come leader — hanno deciso di mantenere Theresa May al numero 10 di Downing Street. I mercati l’avevano anticipato. Ma il sollievo è momentaneo, come l’alba che sorge sul mare in tempesta. Le onde sono sempre alte, il vento non si è calmato.
Mancano tre mesi e mezzo dal recesso del Regno Unito dall’Unione Europea, secondo il calendario indicato dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona, incautamente innescato da Londra. E nessuno — neppure dopo il voto di ieri — sa cosa accadrà. L’avventurosa sopravvivenza di Ms May non cambia la situazione. Il motivo è semplice. Alla Camera dei Comuni non esiste una maggioranza favorevole all’accordo faticosamente negoziato dal governo britannico con gli altri 27 Paesi dell’Unione Europea — l’unico disponibile, a Bruxelles sono stati chiari.
Questa impossibilità è talmente evidente che il Primo ministro, pochi giorni fa, ha rinunciato ad affrontare la House of Commons. Lo ha detto in modo esplicito: se andiamo al voto parlamentare, perdo, e di molto. Oggi è ancora più evidente. Ai voti dell’opposizione, si sommerebbero i voti dei Brexiteers e di altri avversari interni assortiti — almeno 117, ora lo sappiamo — secondo cui l’accordo proposto costringe il Regno Unito a rispettare molte regole dell’Unione Europea, senza poterne influenzare in alcun modo la direzione. E l’ormai celebre backstop — la «rete di protezione» contro la reintroduzione di un confine in Irlanda, pretesa e ottenuta dall’Unione Europea — provoca furori intensi tra gli unionisti dell’Ulster che sostengono il governo May.
Emotiva, divisa e incerta come non è mai stata, la Gran Bretagna trattiene il fiato. Theresa May, invece, può tirare un breve sospiro di sollievo. Per dodici mesi il partito conservatore non potrà sfidarla di nuovo. E l’opposizione parlamentare, affidata al partito laburista, appare grottesca. Jeremy Corbyn non chiederà un voto di fiducia della House of Commons perché sarebbe costretto a uscire allo scoperto. Cosa pensa della Brexit e dell’accordo proposto? È favorevole a un nuovo referendum, che la base del Labour sembra considerare con sempre maggior favore? Non si sa. L’uomo parla d’altro.
In verità, un secondo referendum su Brexit ha smesso di essere impossibile. Oggi è soltanto improbabile. Di sicuro, non sarà Theresa May a prendersi la responsabilità di indirlo. Nella campagna del 2016 s’era schierata, come il suo leader David Cameron, per il Remain: preferiva restare nella Ue. Per conquistare Downing Street, aveva cambiato idea («Brexit means Brexit», Brexit vuol dire Brexit). Ottenuto il voto di fiducia del partito, ieri sera, ha ripetuto che intende portare a termine l’operazione Brexit (I stand ready to finish the job). Lo ha detto con decisione, e perfino un po’ di emozione, con un albero di Natale alle spalle e un sorriso negli occhi. Da tempo non si vedeva.
Ci riuscirà? Il voto della House of Commons sull’accordo con la Ue dovrebbe arrivare entro il 21 gennaio. Non è escluso che, prima di allora, l’Unione Europea, sebbene sostenga il contrario, offra al Regno Unito qualche ulteriore concessione. Si dovrebbe capire già stasera, quando i 27 membri della Ue terranno un summit d’emergenza a Bruxelles. Ma il caos è destinato a durare. Una prova — se mai ce ne fosse bisogno — che la Gran Bretagna, il 23 giugno 2016, scegliendo di staccarsi dall’Europa cui appartiene, abbia preso una decisione emotiva e disinformata, e ne stia pagando le conseguenze. È in tempo a fermarsi, però. O meglio: gli inglesi che conosciamo e stimiamo si fermerebbero. Cadere nel vuoto è inglorioso, a parte tutto.

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