Visto lo sgomento – con punte di depressione acuta – in cui è sprofondata mezza America, e anche buona parte dell’Europa, è utile estrarre da questo risultato elettorale alcune buone notizie. Ci sono.
Intanto abbiamo celebrato la sessantesima elezione quadriennale a suffragio universale per un presidente, record storico per l’umanità intera: nel 2026 la Rivoluzione americana da cui nacque questa Repubblica celebrerà duecentocinquant’anni, un quarto di millennio. Nessun popolo ha saputo preservare la democrazia così a lungo. L’affluenza al voto, 65% degli aventi diritto, è stata elevata. Election Day si è svolto in maniera pacifica, le temute violenze non ci sono state. Il passaggio delle consegne sarà ordinato e Joe Biden ha pronunciato parole di saggezza: «Non si può amare la propria patria solo quando si vince».
Ma c’è un altro insieme di notizie positive che dobbiamo saper leggere in questo risultato: l’America è meno divisa di come siamo soliti descriverla.
È meno spaccata su basi razziali, o secondo criteri sessuali.
È meno polarizzata tra comunità di recente immigrazione e ceppo «bianco». È meno lacerata tra generazioni. È perfino un po’ meno divisa tra Stati «rossi» (repubblicani) e Stati «blu» (democratici) perché alcune tendenze del voto li hanno accomunati.
Torna attuale invece un’identificazione sociale, di classe, sintetizzata da un vecchio marxista come il senatore Bernie Sanders del Vermont (già candidato «socialista» alla nomination) il quale ha denunciato: «Il partito democratico ha smesso di rappresentare i lavoratori». Questo tradimento della sinistra è una storia che viene da lontano, e ha una spiegazione culturale: i ceti laureati hanno abbracciato ideologie che li separano dalle classi operaie, e quando queste ideologie subiscono reazioni di rigetto, i ceti privilegiati se la prendono con «i bifolchi».
Vengo ai dati che ci consegnano un quadro dell’America meno divisa di prima, o meno spaccata di quanto ce la rappresentavamo.
Il discrimine tra i sessi non è stato così pronunciato come prevedevano i democratici (l’aborto non ha avuto il peso che si credeva): per Kamala Harris hanno votato meno donne di quante avessero votato per Biden nel 2020. Tra le donne bianche, Trump ha avuto addirittura la maggioranza.
Tra le minoranze etniche il voto per Trump è salito fino a sfiorare un terzo, con punte del 45% tra i latinos.
Gli «elettori per la prima volta», in prevalenza giovani, avevano scelto Biden nel 2020 e si sono spostati a favore di Trump nel 2024.
Anche se la sera di martedì 5 novembre tutta l’attenzione era sui cosiddetti «swing-States» o Stati in bilico, non è in questi che si sono verificati gli spostamenti maggiori. Il voto a favore dei repubblicani ha segnato guadagni molto più consistenti in Stati a solida maggioranza democratica (California, New York) e a solida maggioranza repubblicana (Texas, Florida) sicché il divario tra le «due Americhe» si è ridotto, non allargato.
È stata un’elezione «decisa dai fondamentali», più ancora che dalla qualità di questo o quella candidata. Cosa s’intende per «fondamentali»? I grandi temi della situazione nazionale che orientano il voto. Al primo posto tra le preoccupazioni dichiarate dagli elettori all’uscita dai seggi: «La mia situazione e quella della mia famiglia oggi è peggiorata rispetto a quattro anni fa». Questa affermazione ha stravinto negli exit poll con il 45%, un livello superiore perfino a quello della grande crisi finanziaria e sociale del 2008. In un’atmosfera di questo genere, vincere per la candidata dell’Amministrazione in carica forse era impossibile (anche se mantengo le mie riserve sulla qualità di Kamala Harris e sui difetti della sua designazione.
Questi dati segnano il tramonto della «politica identitaria»: la sbornia ideologica che negli ultimi anni ha imposto di interpretare tutto secondo i criteri della razza e del sesso. Black, latinos, donne e giovani che hanno votato Trump si sono ribellati anche a quella dittatura ideologica, fanatica e intollerante, che voleva obbligarli alla «disciplina identitaria», voleva schiacciarli in una rappresentazione unidimensionale, obbligandoli a votare in base al sesso, al colore della pelle, all’età. Il divario razziale nel comportamento di voto in questo Election Day 2024 è il più basso nella storia americana dagli anni Cinquanta. Un’elezione che è «tornata ai fondamentali», si è giocata su inflazione, economia, immigrazione: e su questi temi l’identità razziale o sessuale non è affatto decisiva. Ma forse questo era vero da tanto tempo, solo l’ideologia ha impedito di vederlo.
Nel 2008 Barack Obama vinse perché la grande crisi finanziaria creò un poderoso vento contrario ai repubblicani; non vinse perché era black; ma neppure la sua vittoria fu impedita dal colore della sua pelle.
Per completare il quadro sulle motivazioni di voto, che non obbediscono alle indicazioni dei guru, estraggo una chicca dalla comunità araba del Michigan. Se n’è parlato molto, a ragione: voltando le spalle al partito democratico e votando repubblicano, questi arabi-americani del Michigan hanno portato il loro contributo alla vittoria di Trump. Questa era una defezione annunciata. Ma la maggior parte degli osservatori la collegava strettamente alla guerra in Medio Oriente. Era convinta cioè che gli arabi-americani avrebbero punito Harris perché considera l’attuale Amministrazione succube di Netanyahu e complice nella tragedia umanitaria di Gaza. Ho parlato con chi ha fatto «campagna porta a porta» proprio in quella comunità del Michigan di origini arabe. Ecco cos’ha scoperto. Sì, la guerra in Medio Oriente ha avuto qualche peso. Ma più spesso ha scoperto che «i democratici hanno pagato le fughe in avanti e gli eccessi imposti dalla comunità Lgbtq+, gli arabi-americani sono indignati che Kamala Harris abbia voluto spendere i soldi del contribuente per pagare operazioni di cambio di sesso nelle carceri, o tra i militari delle forze armate». La guerra valoriale ha spostato più voti della guerra in Medio Oriente.
E ora? L’esperienza insegna che un risultato elettorale non conta tanto per «quello che è successo», bensì per «quello che loro credono sia successo». Loro: i vincitori e gli sconfitti, i candidati eletti e non, i leader dei due partiti. I democratici rischiano di rimanere prigionieri del loro establishment più radicale e ideologizzato, perché è quello che ha più soldi: il governatore della California Gavin Newsom ha appena convocato una sessione speciale dell’assemblea legislativa del suo Stato per preparare una guerra normativa contro le azioni dell’Amministrazione Trump. Farebbe meglio a occuparsi di correggere il malgoverno locale che ha provocato un’avanzata dei repubblicani anche nel suo Stato.
Trump a sua volta può sovrastimare il mandato che gli elettori gli hanno dato, come se avesse carta bianca. Se non capisce che questa è stata un’elezione decisa dai «fondamentali» – e che quindi il paese vuole risultati sull’economia e sull’immigrazione – rischia di risvegliarsi presto. Ricordo che ancora non ha la certezza di una maggioranza alla Camera (i risultati definitivi li stiamo aspettando). E nella saggezza dei Padri Fondatori, dall’Inauguration Day del 20 gennaio alle prossime elezioni legislative di mid-term passeranno solo 22 mesi.