Rifiutando la formula «Ursula», Berlusconi ha offerto una prospettiva alla destra che verrà dopo di lui
La versione ufficiale degli ultimi trent’anni, già consegnata a provvisori libri di storia, divide l’esperienza politica berlusconiana in due parti. La prima, la «fase lunga», va dal 1993, quando Silvio Berlusconi si pronunciò a favore di Gianfranco Fini sindaco di Roma, al 2011, allorché l’allora presidente del Consiglio fu costretto a cedere a Mario Monti la guida del governo. Nel corso dei diciotto anni Berlusconi è stato più volte a Palazzo Chigi: la «fase lunga» è considerata anche per questo un’epoca eroica, combattiva, vitale, creativa. La «fase breve», durata poco più di dieci anni (2011-2023), è invece tenuta nel conto di un lento, agonizzante declino, assai poco significativo. Credo che, con l’andare del tempo, questo giudizio andrà rivisto e l’esperienza politica di Berlusconi dovrà essere riconsiderata proprio alla luce della stagione più recente. Non foss’altro per il fatto che nel corso della «fase breve» l’uomo ha saputo affrontare la prova più difficile della sua esistenza: la condanna del 2013 e la resurrezione (da tutti ritenuta impensabile) che lo ha riportato, pochi mesi prima di morire, tra i banchi di Palazzo Madama.
Torniamo al 2011. Nel momento in cui consegnò a Monti i propri voti di maggioranza, Berlusconi probabilmente si rese conto che stava abdicando.
Al di là delle apparenze, la scelta del 2011 era assai diversa da quella per altri versi analoga del 1995 (con Lamberto Dini). All’epoca, anche per le intemperanze della Lega di Umberto Bossi, Berlusconi poteva mettere nel conto di essere sconfitto da Romano Prodi, di dover compiere — come disse — una traversata del deserto, per poi, però, ripresentarsi ai nastri di partenza e vincere una seconda volta. Cosa che avvenne nel 2001: centrodestra contro centrosinistra in condizioni simili (più o meno) a quelle del 1994
Dieci anni dopo, nel 2011, tutto era cambiato. Berlusconi si arrendeva a una pressione europea e si rassegnava ad entrare, intruppato con la sinistra, in una maggioranza di sostegno al governo presieduto da Monti. Stavolta, a differenza del ’95, era chiaro che a Palazzo Chigi non sarebbe tornato mai più. Dopo le elezioni del 2013 — nelle quali si affacciò trionfante il M5S — l’uomo di Arcore, pur rinfrancato da un esito non deludente, si sentì praticamente obbligato a donare i propri voti per la rielezione di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, rassegnandosi poi a tornare, da gregario, in una maggioranza a guida Pd. E fu il governo di Enrico Letta. Trascorsero poche settimane e venne la condanna di cui si è detto: uno scatto d’ira lo indusse a uscire da quella maggioranza (ma i «suoi» ministri restarono con Letta). Qualche tempo dopo acconsentì alla trattativa con Matteo Renzi per la riforma delle istituzioni. Andata in frantumi, quella riforma, per l’elezione non concordata al colle di Sergio Mattarella (2015).
Negli anni successivi — ma a ben guardare per tutto il decennio della «fase breve» — dalla sinistra fu offerto a Berlusconi di accomodarsi in governi allargati, nei quali sarebbe stato accolto con i riguardi riservati a un generale di truppe complementari. Contavano, i segretari del Pd e l’intero establishment che a loro faceva riferimento, su una insofferenza di Berlusconi a restare in un centrodestra in cui avrebbe dovuto essere secondo a qualche altro leader. Sarebbe stato meglio per lui stare al governo con la sinistra piuttosto che dover inseguire un qualche Salvini. La nuova legge elettorale, il «rosatellum», fu costruita con la finalità di agevolare questo corso delle cose. E quando Ursula von der Leyen fu eletta Presidente della Commissione europea con il sostegno del M5S (2019), la proposta divenne quasi esplicita: Berlusconi e i suoi erano ufficialmente invitati a far parte, qui in Italia, di una «coalizione Ursula». Assieme a Pd e pentastellati. L’esortazione fu ripetutamente reiterata sia nel corso del secondo governo presieduto da Giuseppe Conte, sia successivamente ai tempi di Mario Draghi.
Ma Berlusconi — pur indeciso a lungo — non si lasciò convincere. E volle dare un segnale del fatto che non era persuaso dagli «ursuliani» respingendo in modo esplicito l’ipotesi di eleggere Draghi presidente della Repubblica. Perché? La differenza tra lo sperimentato centro-destra e la formula «Ursula» è — detto con semplicità — che il primo può presentarsi alle elezioni, la seconda no. Finché resterà in vigore una legge elettorale anche lievemente maggioritaria (forse per sempre) soluzioni come la «Ursula» possono essere praticate solo a seguito di pareggi elettorali o di paralisi parlamentari. Il centro-destra inventato da Berlusconi nel ’93, invece, è in grado di conquistare la maggioranza nelle urne.
Con la decisione di non farsi tentare da «Ursula», Berlusconi è tornato alle origini, ha scelto il proprio successore alla guida del governo, Giorgia Meloni, e soprattutto ha offerto una prospettiva alla destra italiana che verrà dopo di lui. Tocca adesso alla sinistra iniziare quantomeno a immaginare come strutturarsi in maniera analoga per poter competere alle future elezioni politiche. Deve applicare a sé stessa l’«insegnamento berlusconiano». E — se lo fa abbastanza in fretta — può raggiungere lo scopo senza essere costretta a riconoscere pubblicamente chi è stato il maestro che l’ha ispirata.