16 Settembre 2024

Una catena ininterrotta di quattromila comuni, circa la metà del totale, i cui nomi ci diventano spesso familiari solo in occasione di un terremoto o di un’alluvione, coprono quasi il 60% della superficie nazionale ma ospitano solo il 23% della popolazione

Quando la Natura colpisce, diamo la colpa all’Uomo, al suo consumo di suolo, al cemento e alle strade. Il nostro ininterrotto scrivere la storia della civilizzazione umana lascia certamente i suoi segni sull’ambiente, e può combinare guai. Ma se guardiamo con attenzione a quello che è successo in Romagna, ci accorgeremo che i disastri peggiori sono piuttosto avvenuti lì dove l’antropizzazione, la presenza dell’uomo e il suo intervento sul territorio, è stata minore.
La mappa del dissesto, del vero e proprio sfaldamento del territorio che ha segnato per gli anni a venire decine e decine di comuni lungo la dorsale appenninica, isolando paesi e frazioni, distruggendo colture e industrie, sta lì a dimostrarcelo. Non è un caso se il primo intervento con i fondi della raccolta promossa da Corriere e dal TgLa7 sia stato destinato a ricostruire il ponte di Modigliana, il piccolo centro della collina ormai noto come «il paese delle duecento frane», che ieri Mattarella ha voluto sorvolare in elicottero. Si dice spesso, con una metafora, che i problemi sono a monte. In questo caso è vero alla lettera. È nelle aree interne, sempre più spopolate, che si gonfiano i fiumi e i torrenti che poi esondano in pianura, minacciando le città. È lì che il terreno smotta, cede, sprofonda. Si potrebbe dire, invertendo il senso comune, che meno è presente l’uomo meno curato è il territorio. Con la nostra azione di conquista non facciamo sempre danni. Anzi.
La storia della Romagna è questa: decine e decine di fiumi, tutti straripati in questa eccezionale alluvione, che scendono quasi paralleli dall’Appennino e che per molti secoli non riuscivano neanche a versarsi nel Po, o nell’Adriatico, perché il piano campagna era troppo basso. Così i corsi d’acqua «spagliavano», come si dice, creando un’enorme palude, di cui ci è rimasta testimonianza nelle Valli di Comacchio. Zone insalubri e inospitali: Dante è morto a Ravenna di malaria. Questo era la Romagna prima che le bonifiche, le «grandi opere» intraprese per secoli fino alla metà del Novecento, allora senza contestazioni dei «comitati per il no», costringessero i fiumi a sfociare nel mare, o a confluire. Questa terra ha rappresentato a lungo i Paesi Bassi d’Italia, come ha ben detto un romagnolo doc, Antonio Patuelli. È stato l’Uomo a cambiarne il destino.
Non ha dunque senso rimpiangere la Natura «incontaminata» di un tempo. Il consumo di suolo di questa regione è commisurato ai suoi livelli di sviluppo, di benessere e di crescita; e in Lombardia e Veneto è anche maggiore. Ha piuttosto senso chiedersi che cosa si può fare affinché le aree interne, della Romagna e di tutta l’Italia, non diventino un deserto, come sta accadendo ormai da tempo. L’inverno demografico moltiplica gli effetti negativi della fuga verso la costa e verso la città, e accelera l’abbandono di comuni che un po’ alla volta perdono servizi e assistenza, e dunque popolazione, e siccome perdono popolazione perdono anche l’ufficio postale e l’ambulatorio, la scuola e la biblioteca, la stazione e il wi-fi. Un serpente che si morde la coda, e che si snoda dalle Alpi lungo tutto l’Appennino fino alla Sicilia. Una catena ininterrotta di quattromila comuni, circa la metà del totale, i cui nomi ci diventano spesso familiari solo in occasione di un terremoto o di un’alluvione, che coprono quasi il 60% della superficie nazionale ma ospitano ormai solo il 23% della popolazione.
Fermare questo declino, o almeno rallentarlo, è vitale anche per il governo del territorio. Per non ritrovarci con uno scheletro fragile non più un grado di reggere l’opulenza dei suoi fianchi, l’affollamento, la cementificazione e l’industrializzazione delle coste. Le ricette sono in gran parte note (esiste una Strategia nazionale dal 2013 e molti studi sono stati prodotti, a partire da quelli della Fondazione Magna Carta): servono infermieri e strutture diagnostiche, connessione in Rete ad alta velocità per lo smart working, strade e app, turismo e bonus di residenza.
Ma c’è un pregiudiziale aspetto di governance che spesso sfugge. Meno popolazione vuol dire infatti meno elettori, e meno voti significano meno attenzione della politica, dunque anche meno finanziamenti. Di questo passo nessuno farà mai ciò che serve perché non è abbastanza remunerativo in termini di consenso.
C’è un serio problema di rappresentanza di questi territori, dove anche i parlamentari sono scelti altrove. Il tutto aggravato dalla scomparsa delle Province, o meglio dalla loro trasformazione in enti senza assemblee elettive, che non rispondono dunque agli elettori. Sempre più prive di fondi, e sempre più lontane dalle istanze dei cittadini, i servizi che prima erogavano scadono continuamente di qualità. La loro funzione non è stata assorbita dalle Regioni, perché ci può essere, e spesso c’è, anche un centralismo regionale. La nascita delle «aree metropolitane» ha poi introdotto un’ulteriore separazione, perfino formale, con ciò che metropolitano non è. Senza voce in capitolo, queste popolazioni sono state private di potere democratico e di forza di pressione.
C’è inoltre da tempo bisogno di un «Testo unico per le emergenze», un set di norme che agiscano automaticamente in caso di disastro naturale e di emergenza, e che semplifichino le procedure per la ricostruzione, se necessario in deroga (il ministro Musumeci ha annunciato che sta preparando il testo di un disegno di legge, o decreto, che dovrebbe fissare una regola unica anche per la nomina delle strutture commissariali, fin qui rimasta ostaggio del gioco delle parti della politica nazionale).
Se oggi, per dar seguito all’impegno che il presidente Mattarella ha portato alle zone alluvionate, vogliamo davvero avviare una riflessione politica su ciò che è successo e su ciò che può succedere, è dallo scheletro della nazione che dobbiamo ripartire.

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