19 Settembre 2024

Mai come oggi è chiaro che, a dispetto dei sovranisti, problemi globali richiedono soluzioni globali

Finito il G20, inizia la Cop26. Draghi ha detto che l’incontro di Roma «è stato un successo»: «abbiamo mantenuto in vita un sogno». È un successo sognare? Basterebbe la dichiarazione sulla tassa minima globale per sancire la riuscita della due giorni romana. I 19 capi di Stato e di governo (più la Ue), che rappresentano il 60% della popolazione mondiale e l’80%dell’economia del pianeta, si sono impegnati reciprocamente a una «tassazione internazionale» (così è intitolato il paragrafo 32 della dichiarazione finale) per «un più stabile e giusto sistema fiscale internazionale». Il G20 ha incaricato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), una organizzazione internazionale che ha 60 anni di vita e raggruppa 38 Paesi, di preparare gli strumenti multilaterali e le regole modello per evitare che le multinazionali digitali spostino i profitti da un Paese ad un altro allo scopo di pagare imposte inferiori. Basterebbe questo passo per dire che il G20 romano è stato un successo: il potere di tassare, simbolo della sovranità statale, viene legato a un accordo con altri Stati.
Ci sono poi le altre venti pagine della dichiarazione congiunta, articolate in 61 paragrafi, che spaziano su 25 temi, dalla sanità all’ambiente, al clima, all’istruzione, ai trasporti, al commercio e a tanti altri. Vi è, inoltre, la larga partecipazione al Gruppo dei 20, che include anche sei altri governi invitati e le organizzazioni internazionali, pure invitate, da quella del commercio a quella monetaria. Si aggiunge il lavoro preparatorio, svolto da 20 comitati di ministri di settore e da 29 gruppi di lavoro, e dagli invisibili e infaticabili «sherpa» (i funzionari che preparano incontri e documenti). Ci sono, infine, gli incontri bilaterali, che servono al dialogo su singoli temi e tra un numero limitato di Paesi (ad esempio, tra Stati Uniti e Unione Europea, a Roma, si è fatto un passo avanti per la rimozione dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, che avevano originato misure ritorsive europee). Insomma, un piccolo miracolo organizzativo per un «forum», un semplice «club», come il G20, che si riunisce periodicamente solo dal 2008 (quella romana è stata la sedicesima riunione), che non ha neppure un proprio segretariato (usa l’Ocse a questo scopo), che è organizzato con una presidenza a rotazione (ma la continuità è assicurata dal sistema della «troika», che riunisce il presidente precedente e quello successivo a quello presente), e che conclude i suoi lavori con «dichiarazioni» e non con decisioni. Insomma, un modello di precarietà che mostra invece una grande stabilità.
Se la riunione romana aveva una portata generale, quella che si svolge per due settimane a Glasgow ha un tema specifico, il controllo della emissione di gas ad effetto serra. La Conferenza delle parti (Cop), cioè il parlamentino dei 197 Stati parte della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, firmata nel 1992, è alla sua ventiseiesima riunione. Questa, a differenza del G20, è una vera e propria organizzazione internazionale, della «famiglia» delle Nazioni Unite, ha una propria struttura esecutiva (il segretariato) ed ha già fatto progressi con il protocollo di Kyoto (1997) e con gli accordi di Parigi (2015). Ma questi non bastano: occorre stabilire più stringenti limiti ai contributi, determinati a livello nazionale, alla riduzione delle emissioni per evitare l’aumento della temperatura del pianeta. Ma qui sorgono le tensioni tra Stati. Per i Paesi emergenti, questo vuol dire la perdita di molti posti di lavoro. Quindi, interessi mondiali e interessi nazionali confliggono e non è facile risolvere questo conflitto.
Draghi ha affermato, in apertura dell’incontro romano, che «agire da soli non è un’opzione possibile». Ha aggiunto che «il multilateralismo è la migliore risposta ai problemi che affrontiamo oggi». Ha parlato persino di una «comunità globale». Mai come oggi è stato chiaro che — a dispetto dei sovranisti — problemi globali richiedono soluzioni globali. E che queste bisogna cercarle anche se la «comunità globale» non ha unghie e denti, in altre parole non può imporre con la forza il rispetto di obiettivi e regole.
Bisogna, tuttavia, guardare con ottimismo ai successi e anche agli insuccessi, spesso necessari. L’utopia di coloro che nel 1945 firmarono la carta istitutiva delle Nazioni Unite sta trovando oggi realizzazione. Lo testimoniano i duemila regimi regolatori globali (questo vuol dire che il governo della globalizzazione si è allargato a macchia d’olio). Lo testimoniano i «fori di dialogo» degli «attori sociali» che lavorano insieme con i rappresentanti dei governi alla preparazione delle riunioni del Gruppo dei 20 (questo vuol dire che nel governo della globalizzazione non sono coinvolti solo gli Stati, ma anche i rappresentanti delle società civili). Lo testimonia l’interesse dell’opinione pubblica, anche quando dissente, per gli aspetti più spettacolari di queste «kermesse» dei grandi della Terra (questo vuol dire che si allarga la partecipazione popolare alla gestione delle decisioni globali). Lo testimonia, infine, il periodo di pace «sistemica» degli ultimi settantacinque anni (questo vuol dire che, quando le nazioni dialogano, confliggono, negoziano, non si fanno guerre).

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