Per il Pnrr ancora una volta può essere utile rifarsi al metodo adottato da Ciampi nel 1993 per realizzare le privatizzazioni
Sarà per il piglio della presidente del Consiglio, sarà per le divergenze di vedute che affiorano qua e là fra i partiti della maggioranza, sempre più spesso i dossier economici del governo vengono discussi a Palazzo Chigi. In una situazione che continua a risentire delle crisi degli anni recenti, ciò può anche essere elemento di rapidità e di chiarezza: purché di questo si tratti e non sia l’effetto di un riversare al centro compiti e decisioni che potrebbe avere persino effetti opposti a quelli desiderati.
La nuova governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (ogni tanto serve ricordare che cosa si celi dietro la sigla Pnrr) è un esempio di riporto a Palazzo Chigi i cui effetti sull’esecuzione del piano potrebbero essere negativi. Il Pnrr, ora che è stato avviato, per funzionare e concludersi entro i tempi stabiliti, ha bisogno di un «cacciavite», cioè di una struttura di comando agile, che ogni mattina individui i progetti che stentano a partire, intervenga sulle amministrazioni che ne sono responsabili e, se necessario, attivi i «poteri sostitutivi» cioè la norma, forse la più importante del Pnrr, che consente al Consiglio dei ministri di sciogliere i nodi che bloccano i progetti superando gli ostacoli eventualmente posti da Comuni, Regioni o altri soggetti. Serve cioè una struttura che riesca a individuare rapidamente i punti critici e a correggerli.
C’è un pericolo che può nascondersi nella nuova governance. La guida del Pnrr vede a capo un ministro, politico molto abile, ma proprio in quanto ministro, figura di indirizzo, lontana dagli interventi da attuare. Allertato di una procedura che si è incagliata, il ministro chiamerà il suo capo-gabinetto, che a sua volta chiamerà il collega dell’amministrazione in cui si è manifestato il problema. Prima di arrivare all’ostacolo e rimuoverlo saranno trascorse settimane e nel frattempo si potrebbe anche essere persa l’informazione sui motivi dell’incaglio. Inoltre, nei giorni scorsi, fra il ministro e i responsabili dell’attuazione dei progetti è stata interposta un’altra figura, un magistrato contabile, presidente di sezione della Corte dei Conti, con il compito di coordinare la «struttura di missione» che a Palazzo Chigi guiderà il piano. Va ricordato che la Corte dei Conti vigila sulla correttezza delle procedure e della rendicontazione contabile della spesa pubblica.
Da quando il governo Meloni è in carica si è discusso molto di ritardi nell’attuazione del piano oltre che di modifiche, addirittura di rinunce ai finanziamenti. Uscire dalla genericità è fondamentale: va evitato il segnale negativo di un’Italia che anche a fronte di progetti da tempo concordati con l’Ue e di risorse stanziate, non riesce a spenderle, mentre appare impegnata in dibattiti poco costruttivi. Si compili un elenco degli interventi che sono in ritardo e di ciò che li frena. Si indichi lo stato di avanzamento delle sei missioni e i tempi di attuazione.
Ancora una volta può essere utile rifarsi al «metodo Ciampi». Nel 1993, quando l’ex presidente della Repubblica era a Palazzo Chigi, ed erano state avviate le privatizzazioni — un processo per molti aspetti di complessità simile all’attuazione del Pnrr — Ciampi riuniva ogni venerdì i dirigenti responsabili delle varie operazioni di privatizzazione. Su un foglio A4, sul quale aveva tracciato righe e colonne, registrava di suo pugno, a matita, i motivi dei ritardi e il nome di chi riteneva ne fosse responsabile. Il venerdì successivo chiedeva conto di quanto fatto per superare l’incaglio. «Presidente ci vuole tempo» non era una risposta ammessa.
Certo però va evitato di attenuare il potere di organismi, istituti, autorità, il cui compito è frapporsi fra politica ed economia, cosa che renderebbe meno efficaci i filtri istituzionali. Per questo è poco comprensibile, nel caso di alcune nomine recenti, pensare che persone degnissime per quanto con note parentele debbano costruire la loro competenza in corso d’opera, cosa che rallenta il funzionamento degli istituti stessi. Come oggi potrebbe accadere alla Consob.
E ancora, l’obiettivo di una rete di telecomunicazioni nazionale è nei piani dei governi da anni, ma la rete unica non decolla, frenata dagli interessi contrapposti dei vari attori in questa partita: Tim e i suoi azionisti francesi, Cassa Depositi e Prestiti, il fondo australiano Macquarie, il fondo americano Kkr. Ci si deve chiedere se abbia pesato nel permanere dello stallo l’aver smantellato il ministero preposto alla transizione digitale. Come pure se la mancanza di presidio sulle società pubbliche partecipate nel ministero dell’Economia non abbia fatto fare allo Stato una figura poco brillante alle assemblee di Leonardo ed Enel.
Come si vede è una questione di ricerca continua di equilibrio tra poteri, di governance delle pubbliche amministrazioni. Ricerca tutt’altro che facile. Ma l’attenzione che, per esempio, circonda il Next Generation Eu in Europa va al di là dei finanziamenti delle opere. Questo programma è il primo esempio dell’utilizzo di titoli comuni europei per finanziare investimenti che gli Stati membri hanno progettato in collaborazione con la Ue e che sono attuati sotto la sorveglianza della Commissione europea. Il primo esempio di combinazione tra decisioni strategiche europee e scelte dei singoli Stati.
Di questo programma l’Italia ha avuto la porzione più ampia. E trattandosi di un piano pluriennale ha la responsabilità di dimostrare che le scelte effettuate non dipendono dal colore politico del governo. Lo Stato si è impegnato in prima persona su alcuni progetti che noi stessi abbiamo sottoposto all’Europa. Si pensi solo ai progetti nella sanità che con la costruzione delle Case di comunità e degli Ospedali di comunità affrontano quello che si è dimostrato l’anello più debole nella diffusione della pandemia. Progetti modificabili, certo, ove paia necessario. A patto che il treno che appare in rallentamento non si fermi del tutto.