19 Settembre 2024

L’unico vero limite ai contenuti illeciti e alle notizie ingannevoli è obbligare chi li diffonde a firmarli, o per usare un’espressione ormai stucchevole a «metterci la faccia»

La vita virtuale sostituisce la vita reale. Le relazioni tra le persone non sono più fisiche ma digitali. Però nelle piazze elettroniche si possono commettere impunemente reati che in quelle fisiche sono giustamente perseguiti. Questo non può continuare a lungo.
È troppo facile offendere una persona sui social.
È troppo facile minacciarla, ingannarla, danneggiarla, rovinarla.
È troppo facile estorcere denaro a un anziano, una foto intima a un adolescente, fiducia a chiunque di noi.
E tutto questo accade perché è troppo facile aprire profili «fake» o comunque anonimi, dietro cui celare la propria vigliaccheria.
Si potrebbe replicare: questi reati esistono già. La diffamazione. La sostituzione di persona, quando si finge di essere qualcun altro. Il furto d’immagine, quando si usa la foto di un altro. Ma la macchina giudiziaria italiana era farraginosa già quando la vita virtuale non esisteva; figurarsi ora. Basta conversare con qualsiasi agente della polizia postale per rendersi conto che sta tentando — con abnegazione e professionalità — di svuotare il mare con un cucchiaio. Può intervenire sui casi più drammatici, nella speranza che non sia troppo tardi (rintracciare chi si nasconde dietro un profilo fake non è impossibile). Ma è evidente che la soluzione non può essere solo reprimere. Occorre prevenire. E l’unico modo è obbligare i padroni della rete a non consentire più l’apertura di profili falsi o comunque anonimi.
Facebook, Instagram, Twitter, TikTok, Twitch, ma anche Google e Amazon sono ormai i più grandi editori del mondo. Sono abituati a non produrre e a non pagare i materiali che diffondono, a rastrellare la pubblicità digitale, a versare le (poche) tasse dove conviene. Obblighiamoli almeno a non diventare complici involontari di reati. A non consentire ai loro utenti di danneggiarne altri.
Qualcosa si muove. L’altro giorno Mark Zuckerberg ha presentato un nuovo servizio su Instagram e Facebook, riservato alle aziende e ai creatori di contenuti, che certifica — a pagamento — l’identità del profilo. Dovrebbe essere una regola generale. Ma l’apparente gratuità è stata finora il principio fondativo della rivoluzione digitale. Gratuità che è diventata sinonimo di irresponsabilità. Non si tratta di pagare. Si tratta di dichiarare il proprio nome, anziché nascondersi dietro sigle di fantasia — che spesso attingono al turpiloquio per dichiarare fin dall’inizio un’intenzione aggressiva — o peggio ancora dietro il nome di un altro. Proprio come quando entriamo in autostrada: la nostra targa viene registrata, il tutor ci tiene giustamente d’occhio; chi guida in modo pericoloso viene (o dovrebbe essere) sanzionato, per la sicurezza di tutti.
In passato ci sono stati palesi tentativi di inquinare elezioni democratiche. In contese cruciali che si decidono per poche migliaia di voti, dalla Brexit all’elezione del presidente americano, anche fenomeni all’apparenza marginali possono avere un ruolo. Ma qui non sono in gioco solo le grandi scelte popolari. È in questione anche la nostra vita quotidiana. I social non vanno confusi con la società, l’atteggiamento dei maleducati non va confuso con quello della maggioranza delle persone. Però non va sottovalutato neppure la sofferenza delle persone fragili, compresi i ragazzi bullizzati dai coetanei o ingannati da partner immaginari.
Il finale della scorsa legislatura ha visto la maggioranza più ampia della storia repubblicana, che però non è riuscita a trovare regole condivise per mettere ordine nel caos pericoloso del web. In Parlamento sono arrivati due disegni di legge, uno firmato dall’ex ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, l’altro dall’ex braccio destro di Cossiga Luigi Zanda. Il primo era diretto a punire l’istigazione all’odio sul web, l’altro la diffusione via Internet di contenuti illeciti e notizie ingannevoli. L’idea era responsabilizzare i padroni della rete, costringendoli a rimuovere insulti, minacce, calunnie, fandonie. Ma la maggioranza si divise. Neppure destra e sinistra erano compatte: la Lega e i Cinque Stelle obiettarono che non si poteva limitare la libertà d’opinione on line. E in effetti non è facile individuare dove finisce la libertà e dove comincia l’offesa, o quando la notizia fantasiosa — se fossero vietate per legge il traffico digitale crollerebbe — diventa ingannevole e quindi pericolosa. Il criterio non è solo il mercato. Se da un lato l’informazione non può essere gratis, dall’altro non si può imporre a nessuno di pagarla, se non è interessato.
Alla fine l’unico vero limite ai contenuti illeciti e alle notizie ingannevoli è obbligare chi li diffonde a firmarli, o per usare un’espressione ormai stucchevole a «metterci la faccia». Non sarebbe sbagliato se fosse questa la prima legge bipartisan della legislatura appena cominciata.
A quel punto staranno più attenti. Tutti. Chi offende, minaccia, disinforma. E i padroni della rete che fino a questo momento hanno consentito loro di farlo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *