Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Armellini
Il governo deve scegliere tra lo «spirito di Ventotene» e quello di Bratislava per poter giocare un ruolo attivo in un contesto sempre più diviso e multipolare
Fra il proposito di «andare avanti da soli se gli altri non ci ascoltano», e quello di rilanciare l’Europa partendo da Ventotene, c’è una bella differenza, da cui traspare la fragilità di una politica guidata troppe volte dall’effetto di annuncio. Passi che l’Europa di cui si è discusso sull’isola pontina fosse lontana da quella delineata da un Manifesto che pochi avevano letto, e dalla visione di Altiero Spinelli; l’idea era buona per sottolineare mediaticamente la centralità dell’iniziativa italiana. Non c’è stato bisogno di Bratislava per vederne i limiti, che sono apparsi di tutta evidenza già qualche giorno prima, quando Francia e Germania hanno presentato a Federica Mogherini un documento congiunto sullo sviluppo della difesa europea senza l’Italia. La nostra proposta è arrivata un po’ di giorni dopo: come mai? Sembrerebbe quasi che all’attivismo di francesi e tedeschi non abbia corrisposto una analoga tempestività italiana e che i primi, stanchi di aspettare, abbiano deciso di procedere da soli senza attendere oltre. Il documento italiano è ben argomentato e contiene spunti interessanti, ma non bastano definizioni accattivanti (visto come vanno le cose oggi, forse anche un po’ iettatorie) come «Schengen della difesa» per recuperare un ruolo. Renzi ha avuto ragione a reagire a Bratislava alla sordità di partners che si rifiutano nei fatti di comportarsi come tali ma, aldilà delle proteste, vi sono alcune lezioni da trarre.
Per quanto possiamo trovare la cosa sgradevole, non vi è eguaglianza di peso politico in Europa fra noi e Francia e Germania, per mille evidenti ragioni storiche, di immagine, psicologiche. Abbiamo la possibilità di inserirci costruttivamente nell’asse franco-tedesco sfruttando una caratteristica che ci distingue dagli altri, e sulla quale abbiamo giocato più volte con successo in passato: la capacità di elaborare politiche europee prive di suggestioni egemoniche e perciò stesso attente a cogliere con pragmatismo i margini del possibile nel processo di integrazione. Farlo significa dedicare una attenzione non casuale, approfondendo le implicazioni e, soprattutto, elaborando una strategia coerente di medio periodo su cui far convergere gli altri. Cosa questa che al momento mi pare difficile vedere.
La scelta delle alleanze non può essere episodica. Abbiamo lanciato i sei paesi fondatori del Mercato Comune come «nucleo duro» della nuova Europa: un’idea suggestiva ma priva di sostanza politica in una Europa profondamente diversa da quella del 1957. A Ventotene. ci siamo fatti promotori di un nuovo e più ristretto gruppo di testa. Qualche giorno dopo, ad Atene, abbiamo proposto un asse mediterraneo con Tsipras, puntando sulla copertura politica di Hollande. L’idea che il Presidente francese potesse farsi agganciare in formati che in qualche modo mettevano in ombra il rapporto privilegiato con Berlino, non poteva andare lontano. La Francia è oggi il vero malato d’Europa e, perciò, ha più necessità di chiunque altro dell’abbraccio protettivo di Angela Merkel, cui può offrire una sponda politica acciaccata ma ancora spendibile.
L’Italia deve risolvere la contraddizione, sempre più evidente, fra la tentazione di una rinazionalizzazione strisciante della sua politica europea, espressa da Matteo Renzi dopo Bratislava, e la tradizionale linea europeista riaffermata, sia pure a parole, con lo «spirito di Ventotene». Indignarsi per esclusioni ingiustificate va bene, a condizione di avere una linea di ricambio credibile. Abbiamo ragione da vendere in tema di flessibilità e di immigrazione ma — per chi avesse dei dubbi — ci ha pensato la presentazione del Def a chiarire che è assai rischioso indebolire ulteriormente un tessuto europeo del quale continuiamo ad avere fondamentalmente bisogno.
La Brexit ha aperto la stagione della frammentazione dell’Ue in una molteplicità di piccoli gruppi: Visegrád, i Balcani, gli scandinavi, sono la spia di un malessere potenzialmente rovinoso per l’Europa. Da soli difficilmente riusciremmo ad andare oltre la provocazione, magari intelligente, e gli spazi di manovra ci sono. La Germania sente scricchiolii sinistri (vedi Deutsche Bank) e prima o poi dovrà convincersi che una gestione dogmatica della zona euro può ritorcersi pesantemente a suo danno. Il «gruppo di Visegrád» (o «Asburgo light» come lo chiama qualcuno dopo l’adesione dell’Austria) non può erigere muri contro gli immigrati e allo stesso tempo reclamare piena libertà di movimento per i suoi cittadini. Al pari degli scandinavi, devono capire che il tema dei rifugiati non è solo umanitario, ma tocca l’equilibrio di una costruzione da cui traggono non pochi vantaggi. L’importante è «pensare lungo» e non farsi sedurre troppo dalla provocazione impressionistica; con l’UE ridotta a poca cosa, i primi perdenti saremmo noi.