I sommovimenti politici, sociali ed economici in atto suonano come un allarme. Ma la Ue sembra non vedere il rischio di destabilizzazione che corriamo
Il domino della disperazione ricomincia dall’altra parte del nostro mare. Mentre gli ultimi millecento migranti vedono le coste italiane proprio in queste ore, a noi conviene forse allungare lo sguardo oltre il Mediterraneo: là, dov’è il cuore del problema. A conti fatti, su circa 200 milioni di cittadini nordafricani, 150 sono scontenti dei loro governi, convinti di avere compiuto «passi indietro gravi nel campo dei diritti e delle libertà personali tra il 2019 e il 2020». A dieci anni dalle prime rivolte, il fallimento delle cosiddette Primavere arabe, così fotografato dal centro studi «Arab Barometer», incrociando il Covid e il cambiamento climatico, provoca in Nordafrica vasti sommovimenti politici, sociali ed economici. E suona come allarme per l’Europa: per i suoi Paesi rivieraschi, più esposti ai flussi di profughi e, in particolare, per noi, con la nostra infinita frontiera marittima.
Nel dibattito pubblico italiano la questione è ancora schermata dai timori per una quarta ondata di pandemia, ma sta già riaffacciandosi con prepotenza negli slogan sovranisti: da qui alle prossime elezioni legislative potrà esplodere nuovamente con tutte le contraddizioni che ha generato in passato. Quando i battelli ong Ocean Viking e Sea Eye 4 hanno raccolto l’ennesima ondata di fuggiaschi, a lungo in attesa di un approdo, Luciana Lamorgese ha ricordato che «è giusto salvare queste persone ma è ingiusto che a farsene carico sia un solo Paese, il nostro, solo perché di primo arrivo». Lo ripetiamo invano da anni.
Il mai riformato trattato di Dublino, i poco applicati accordi di Malta, le cento promesse di un’Unione molto solidale contro il coronavirus, ma del tutto assente di fronte alle grandi ondate di sfollati (perché condizionata dall’ostruzionismo del blocco di Visegrad), sono altrettante spine per chi debba governare il fenomeno dal Viminale.
I dati del «cruscotto» del ministero dell’Interno al 5 novembre sono espliciti: con 54 mila sbarchi da gennaio, a fronte dei 29 mila del 2020 e dei 9 mila del 2019 nel medesimo periodo, gli arrivi si sono moltiplicati per sei in due anni; naturalmente Matteo Salvini intona il facile mantra del «quando c’ero io…», ignorando però volutamente un contesto geopolitico assai mutato. Non è un’emergenza, intendiamoci: siamo appena a un terzo dei flussi che l’Italia affrontò durante la grande crisi del 2014-17 (risolta dal «memorandum» del ministro Minniti, a tutt’oggi assai contestato dalla sinistra e dalle associazioni umanitarie per il feroce trattamento imposto ai migranti dai guardacoste di Tripoli e nei campi libici). Tuttavia, segnala una tendenza preoccupante, a fronte di un sistema d’accoglienza ancora da riformare, se non da rifondare. E conferma la specificità nordafricana: tunisini (14 mila) ed egiziani (seimila) costituiscono quasi il 40% dei migranti sbarcati da noi nel 2021.
L’allarme viene rilanciato da Ispi e Consiglio Atlantico nell’ultimo dossier sul Nordafrica, «2030 quale futuro attende la regione». I ricercatori ne paventano uno decisamente «tetro» di fronte a sfide che includono una disoccupazione giovanile del 49% in Libia (un dato mai raggiunto) e tassi analoghi a prima delle Primavere arabe in una Tunisia piagata dall’instabilità politica, un’urbanizzazione senza servizi per il 56% dei nordafricani affluiti nelle metropoli, una transizione energetica potenzialmente esiziale per gli Stati «rentier» (Algeria e, ancora, Libia) abituati a contare sull’oro nero come su un bancomat senza limiti.
Questo disastro ci riguarda. «Se i cittadini nordafricani continuano a credere che la loro opzione migliore sia migrare a Nord, la pressione migratoria verso l’Unione europea potrà solo aumentare, come già è accaduto nel periodo post Covid (il numero dei passaggi irregolari dal Nordafrica all’Europa è cresciuto da 40 mila nell’anno precedente il marzo 2020 a 110 mila negli ultimi dodici mesi)», notano, introducendo il dossier, l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi, e il Ceo del Consiglio Atlantico, Frederick Kempe. Se anche uno ogni mille di quei 150 milioni d’inquieti nordafricani descritti dall’«Arab Barometer» decidesse di seguire oggi la rotta mediterranea verso l’Europa, genererebbe all’istante una nuova crisi migratoria in Europa e soprattutto in Italia.
Per quale via se ne esce? C’è chi, come Gennaro Migliore, immagina «un vero Pnrr africano». Il tema del sostegno economico all’Africa è antico e controverso: infatti, il presidente italiano dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo invoca anche «una forza di sicurezza europea che lo accompagni, per fare ciò che facevano prima gli Stati Uniti». Vasto programma, direbbe De Gaulle, nelle continue baruffe tra Bruxelles e Stati nazionali. Eppure, la forte avanzata del terrorismo islamista nel Sahel, generata dal Covid (causa ritiro delle truppe e fuga dei jihadisti dai campi di detenzione siriani non più controllati) suggerirebbe davvero un’azione comune: «Il Sahel può essere un Afghanistan alla enne nel cuore dell’Africa», dice Migliore. E i tormenti della regione subsahariana possono arrivare fino a noi: «L’attuale volatile situazione del Sahel ha aggravato le condizioni economiche e bloccato ogni miglioramento, fattori che influenzano la migrazione verso il Nordafrica e, di conseguenza, verso l’Europa», spiega l’Ispi. Famiglie, mamme, ragazzini fuggono dal nuovo Isis, dalle dittature, dagli scontri interetnici, innescando un moto collettivo verso Nord che ha le nostre coste come casella d’approdo. Che una Unione capace di investire tanto sull’Italia del post pandemia non veda come questo domino disperato possa destabilizzarci, premiando proprio le forze all’Europa più ostili, è uno di quei paradossi dietro i quali la storia si diletta a nascondersi: fino a rivelarsi quando ormai è troppo tardi.