Fonte: Corriere della Sera
di Mauro Magatti
È positivo che finalmente si sia tornati a parlare di istruzione ma si può e deve fare di più: ormai sono decenni che abbiamo smesso di investire sulle persone
Buona parte dell’estate è stata spesa a discutere della riapertura della scuola. E finalmente, dopo mesi di incertezze e discussioni, gli studenti sono tornati in classe. I problemi certo non sono finiti. Sarà una battaglia. Ma al di là di tutto, un obiettivo è già stato raggiunto: dopo anni di trascuratezza, il Covid ha riportato alla ribalta la scuola. Oggi c’è più consapevolezza che senza una buona offerta formativa non c’è futuro. Una nuova sensibilità filtrata fin dentro le linee guida approvate dal governo per il Recovery Plan, dove «istruzione e formazione» costituiscono una delle sei macro aree su cui si intendono spendere le risorse in arrivo dall’Europa (le altre sono: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica e rivoluzione verde; infrastrutture per la mobilità; equità, inclusione sociale e territoriale; salute).
Un ottimo proposito. Come un aereo, una società avanzata si regge solo su due ali: l’infrastruttura tecnica e la qualità delle sue persone. La realtà però è un’altra: in questo campo, infatti, abbiamo accumulato un grave ritardo. Nella fascia d’età 25-34 anni, il 44% ha una laurea, ma siamo comunque indietro: in Corea sono al 70% e in Canada e in Irlanda al 60%. Soprattutto siamo ancora lontani da un livello accettabile di efficacia del percorso scolastico: ancora oggi uno studente italiano su quattro non raggiunge il livello 2 di competenza in lettura, che significa riuscire a identificare l’idea principale in un testo, trovare informazioni basate su criteri espliciti, e riflettere sullo scopo e la forma del contenuto proposto (dati test Pisa).
Va male anche per le competenze digitali dove, nel 2018, l’Italia si piazza quart’ultima fra i Paesi dell’Unione Europea (seguita solo da Bulgaria, Grecia e Romania). Si stima che, ad oggi, il 40% dei lavoratori non è nelle condizioni utilizzare in modo efficiente gli strumenti digitali.
Nonostante questi dati, da anni stiamo disinvestendo: secondo Eurostat, nell’ultimo decennio la nostra spesa in istruzione (dalla scuola dell’infanzia all’università) è diminuita ponendoci all’ultimo posto in Europa rispetto alla spesa pubblica totale (circa l’8%, più o meno quanto spediamo per gli interessi sul debito) e al quintultimo posto rispetto al Pil (meno del 4%). Con il Nord — in primis la Lombardia — che ha dati peggiori del Sud. Né le cose vanno meglio se guardiamo il mondo delle imprese, dove la voce formazione dei dipendenti rimane più bassa della media dei paesi Ocse. Senza dir nulla poi del nodo irrisolto della formazione professionale e della difficoltà nell’avvicinare il pensare con il fare.
Ci sfugge il rapido aumento della complessità che caratterizza la nostra vita sociale: l’elevato contenuto cognitivo dei mondi altamente tecnicizzati; la complessità culturale derivante dalla integrazione tra diverse aree del mondo; la difficoltà di riuscire a trattare l’enorme quantità di informazioni caotiche a cui siamo esposti. In questa situazione, mancare di una solida formazione di base e dei necessari percorsi di aggiornamento significa, come ha insegnato Bernard Stiegler, finire prigionieri delle nuove forme di proletarizzazione che producono la perdita di «saper fare», «saper vivere» e «saper pensare». In un mondo sempre più accelerato e tecnicizzato, la formazione delle persone è condizione per avere crescita economica, presupposto per rendere stabile la democrazia, antidoto per contenere l’odio e la violenza.
Se l’Italia oggi arranca è perché — dopo il grande salto compiuto con l’introduzione della scuola pubblica universale — sono ormai decenni che abbiamo smesso di investire nelle persone. Ora, la crisi del Covid ci porta a un bivio: o si sarà capaci di cambiare strutturalmente la rotta oppure il sistema scolastico (e non solo) collasserà. Il gran parlare, a volte un po’ surreale, di scuola non si esaurisca dunque col suono della prima campanella. Rispetto al tema formazione, dobbiamo recuperare una arretratezza più che decennale. Cominciando con tante realizzazioni concrete. Ma avendo anche il coraggio di osare pensare in grande. Come sono stati capaci di fare i nostri padri. Proviamo a pensarci: non erano forse degli autentici visionari coloro che hanno cominciato a immaginare la scuola obbligatoria per tutti quando solo pochi sapevano leggere e scrivere? In realtà, cio che serve è una nuova comprensione del significato della formazione in una società avanzata. Lo ha detto, a suo modo, il presidente Mattarella nel suo intervento per la giornata mondiale dell’alfabetizzazione. Termine bellissimo — fatto delle prima due lettere dell’alfabeto — che va interpretato nel suo senso più vero: che cosa serve per essere capaci di usare le tante lingue e i molteplici segni del nostro tempo e così diventare cittadini del mondo avanzato?
Non preoccupiamoci di avere subito tutte le risposte. Non rinunciamo, piuttosto, a porci domande ambiziose. Come vanno ripensate le scuole, soprattutto oggi dopo la pandemia, affinché riescano a diventare polmoni diffusi di conoscenza, luoghi di interazione col territorio, vettori di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo che sempre più è e sarà «on-life»? Come va riqualificato (e diversamente pagato) il ruolo docente affinché possa tornare a essere una figura di riferimento in grado di accompagnare le nuove generazioni a misurarsi con un mondo tanto complesso? Quali forme dovrà assumere un sistema organizzato e efficace di formazione continua, pilastro mancante nell’idea novecentesca di istruzione?